Abalone Productions – AB013 – 2012
Denis Badault: pianoforte
Régis Huby: violino
Tom Arthurs: tromba
Sébastien Boisseau: contrabbasso
H3B porta nelle tredici tracce di Songs No Songs una visione non convenzionale che attinge ad uno spettro estremamente ampio di suggestioni, dalle esperienze della musica colta contemporanea fino ad arrivare al richiamo al trip hop. Nel mezzo, troviamo la pratica del jazz, la spinta rigorosa dell’improvvisazione radicale, un atteggiamento sempre aperto a lasciarsi permeare dal flusso sonoro di un quartetto dalla composizione particolare. La formazione nasce come trio composto da Denis Badault, Régis Huby e Sébastien Boisseau: nel 2009, a loro si aggiunge il trombettista Laurent Blondiau, sostituito nel 2010, da Tom Arthurs. Tromba, violino, pianoforte e contrabbasso, quindi, per costituire un insieme capace di esprimere sonorità aspre, di seguire il filo dell’improvvisazione, di accogliere e rilanciare la vena melodica delle composizioni.
Il titolo del disco, Songs No Songs, è spiegato sul retro della copertina con l’alternanza di otto composizioni firmate da Badault con cinque “no songs”, vale a dire frammenti improvvisati dai quattro musicisti in studio. I due aspetti si confrontano e si compenetrano nel corso del disco: se la melodia di 8 chords, il brano di apertura del lavoro, si rivela poco a poco a partire dall’introduzione libera di Tom Arthurs, i dialoghi a quattro voci delle “no songs” puntano alla costruzione di nuclei melodici precisi, riconoscibili per quanto estemporanei. Ne viene fuori un disco che, pur senza essere facile, non risulta scostante: la struttura atipica del quartetto rende necessaria la copertura dei vari ruoli e questo avviene sia attraverso una scrittura capace di tenere sotto controllo tutti i particolari ma anche grazie all’applicazione continua dei quattro al sostegno reciproco. Il vantaggio dell’assenza della batteria si ritrova nell’agilità della formazione, nella possibilità di creare incroci sonori sempre diversi accoppiando a seconda dei casi le linee dei vari strumenti, in uno sfruttamento davvero ampio e ricercato delle dinamiche e dell’impatto emotivo. E se il disco si chiude con l’atmosfera fin troppo riflessiva disegnata dagli ultimi due brani, J’ai tout dit? G to D e Digestive biscuits, la mano del pianista guida secondo un disegno sicuro ed efficace l’andamento del lavoro: pianificazione e istinto del momento trovano sempre spazio nelle pieghe delle composizioni. E così in un gioco di contrasti ed opposizioni si alternano spigoli, serrati contrappunti e passaggi rilassati, lo sguardo alle tradizioni e spinte in avanti, rispetto per la partitura e slanci informali, pause introspettive e sezioni condotte per mezzo di ostinate ripetizioni.
Un disco non facile, ma in grado di porre all’attenzione dell’ascoltatore le necessità e le possibilità di una musica del tutto attuale. Il filo conduttore del lavoro diventa la ricerca di un equilibrio tra le diverse istanze e la conseguente e naturale disposizione dei vari elementi fino a costituire un quadro preciso, unitario e compatto: i brani improvvisati servono a scomporre, senza spezzare definitivamente quanto definito dalle composizioni, ma anzi offrendo nuovi spunti da cui ripartire; i temi affrontano la necessità di un linguaggio che si amplia di esperienza in esperienza e riflettono la complessità di una musica che deve rimanere in movimento per essere creativa.