Luca Ragagnin, Un amore supremo

Foto: Copertina del libro





Luca Ragagnin, Un amore supremo.

Instar libri, Torino 2009


Scrivere di jazz è difficilissimo, scrivere “jazz” che non siano note, ancor di più. Sia nel primo che nel secondo caso si rischia di finire sempre nel puro impressionismo estetico emotivo, oppure nell’assoluto tecnico: pena, in entrambi i casi, l’incomunicabilità. Nel secondo caso poi, si pensa pretestuosamente di poter inventare un linguaggio che evochi, rieccheggi e suggerisca ciò che poi la musica sarebbe. Ma anche qui si rischia sempre di cadere nell’espressionismo soggettivo e quindi non farsi intendere, allo scopo di far immaginare chissà quali recondite profondità dietro un nulla percettivo di fatto. Questo libro invece in qualche modo ci salva da questi estremi, un po’ perché intelligentemente li contiene tutti per cui, li supera, un po’ perché non cade nell’anedottica spicciola, altro limite della scrittura sul jazz, ma soprattutto perché non categorizza nulla, non stabilisce scale di valori, ma ci lascia di fronte a vite immaginate, tratti di realtà nelle quali riconosciamo le nostre impressioni o percezioni. Un libro che scava immaginando, i tratti possibili delle personalità e delle anime di chi il jazz l’ha vissuto e lo vive sinceramente, tutte cose possibili, relazioni e suggestioni fantastiche e verosimili: insomma, quello che scriverebbe una persona che non si limita all’ascolto, all’iconografia affascinante e “romantica” di una sorta di stile di vita, ma di chi vorrebbe entrare nell’anima delle storie, nell’anima delle vite, nell’anima della musica.


Uno dei pregi del libro è la sincerità di una immedesimazione senza mediazioni, dove il rapporto con la storia, il disco, il suono e l’aneddoto, è quello di chi conosce e perché conosce, ama. Quindi il libro si legge con piacere nella sua molteplice e contraddittoria varietà, tenuta insiema da “A love supreme” per questi suoni, queste vite, queste metafore e queste verità dell’esistenza che sono poi le storie degli uomini che il jazz lo hanno fatto e lo fanno. Ci sono ovviamente cose più o meno riuscite, più o meno comprensibili, belle profonde, ma in fondo perché così sono i fenomeni dell’esistente ad essere tali per cui il libro funziona come una fonte di sorprese e di curiosità che siamo liberi di accettare o no, ma che rispettiamo sempre per la sincerità dell’amore che le ha dato forma.


Alcuni racconti hanno l’intensità di una “take live” di Ornette Coleman, che ammetto, è stata una delle esperienze artistiche più sconvolgenti e belle della mia vita; altri hanno la solennità dell’epica, alcuni l’arguzia dell’anedottica, altri ancora l’intensità meditativa e viva di “the Bridge” di Rollins che è stata mia colonna sonora per tanto tempo, insomma ci sono tutte le gamme possibili di musica e di approcci letterari, di simbolismi e di ovvietà, di linguaggi e suggestioni perché in fondo tutto questo e il contrario di tutto questo è il nostro rapporto col jazz. Ma mi piace pensare che questo rapporto di curiosità, passione e amore che colgo tra le pagine possa essere una metafora più vasta di quello che potrebbe e dovrebbe essere il nostro rapporto con la vita, e l’esistenza, nei suoi piccoli o grandi fatti quotidiani.


Per questa ragione, mi sembra davvero un bel libro, più accessibile sicuramente agli appassionati audiofili. Direi consigliabile ai musicisti ma non a tutti: solo a quelli che si sono liberati dal ruolo e dalle presunzioni e cominciano ad accedere all’anima della musica lasciandosi alle spalle l’ambizione e l’ostentazione. Perché dico questo? Non per buonismo ma perché le storie che sono raccontate presuppongono mente e cuore “larghi” per tenere insieme glorie e miserie, successi e fallimenti, mattane e rigore, glorie e tragedie – insomma per tenere insieme tutti gli stili, tutte le diversità e tutti gli eccessi. Mente e cuore larghi son propri di chi ama e non di chi giudica, di chi desidera capire e non di chi presuppone. Quindi un’ottima lettura che apre cuore, mente e cervello e cerca di dare “l’anima” e il senso alle “cose di jazz” , senza pedanterie, senza santificare, senza retorica ma con un solo grande amore per la bellezza, la verità e la pietà. Da leggere, se presi dalle frenesie, ne sentiamo ancora la mancanza.