Le rotte della Musica: intervista a Ayse Tütüncü

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Le rotte della Musica: intervista a Ayse Tütüncü




Prosegue con l’intervista a Ayse Tütüncü, la pubblicazione di alcune delle interviste che hanno costituito il materiale di partenza de Le rotte della musica, libro realizzato da Fabio Ciminiera e pubblicato da Ianieri Edizioni. Il volume è un racconto corale, animato da musicisti, organizzatori, fotografi ed altri protagonisti: personaggi anche distanti tra loro per sonorità e intenzioni, ma uniti dalla ricerca di sintesi originali. Un affresco attuale e, soprattutto, aperto a tante prospettive diverse del panorama musicale dell’area mediterranea. Le rotte della musica è anche su myspace: www.myspace.com/lerottedellamusica

Fabio Ciminiera Partiamo dall’Ayse Tütüncü Trio e dal CD Carnavalesque e, in particolare, dalla forma del trio che hai scelto per il gruppo…



Ayse Tütüncü Mi è sempre piaciuto suonare in duo sia con il clarinetto basso che con il sax soprano; un giorno mi sono domandata: perché non suonare con entrambi? Ho cercato nella letteratura musicale per cercare esempi precedenti, con questa strumentazione, per studiarne le dinamiche ma non ne ho trovati molti. A quel punto mi sono detta: comincio a fare da me! E comporre per strumenti a fiato è stato un lavoro davvero divertente. Inoltre i due musicisti che sono presenti nel disco, Oguz Büyükberber e Yahya Dai sono due interpreti con i quali ho suonato per molto tempo e questo significa che conosco bene come loro suonino e che posso comporre avendo perfettamente chiaro il loro suono nelle mie orecchie e poter immaginare le parti libere per il trio.



FC. Quali sono le direzioni musicali del trio? Nella vostra musica si sentono molte influenze diverse: come le hai sintetizzate?


AT: Nella mia musica si riflettono i miei studi di pianoforte classico, il jazz e l’ascolto delle tante musiche tipiche dell’Anatolia, la regione centrale della Turchia: queste influenze si ritrovano sia nella mia composizione che nelle mie improvvisazioni. I miei musicisti preferiti, i miei maestri sono artisti come Bela Bartok, Johannes Brahms, Sergej Prokofiev, Johann Sebastian Bach, Chick Corea, Lennie Tristano, Bojan Z, Carla Bley, Keith Jarrett, Shirley Horn, Lynne Arriale, Misha Alperin, Haci Tasan, Neset Ertas, Yalçin Tura… L’atto di sintetizzare, forse, comincia ben prima di iniziare a comporre, semplicemente ascoltando differenti tipi di musica e cercando di recepire gli stimoli di ciascuno di essi, cercando di capire come funzioni ciascun brano e come possa suonare in modo così bello. Quando compongo, come è ovvio, tutto diventa più intenso: quando ascolto la musica con maggiore concentrazione, mi vengono in mente similitudini e idee… ad esempio colgo la vicinanza tra un tipo di scala egizia e una scala bebop oppure ritrovo in una melodia di Chopin una costruzione ritmica in 6/8, tipica dei ritmi del Caucaso. In pratica sono le istruzioni che do a me stessa per procedere e realizzare a partire da queste mie percezioni.



FC. Il trio così composto, da una parte permette molta libertà, ma dall’altra vi impone di coprire molti ruoli…


AT: Sentire in modo profondo l’essenza del momento è davvero importante. Se un musicista sul palco suona semplicemente quello che è stato scritto a tavolino, diventa difficile rendere il concerto un evento, in qualche modo, unico. D’altro canto se la musica si apre ai feeling del momento in cui viene suonata, tutti si rendono conto di dover dare una forma alla musica e al tempo, una forma che non c’era prima! Questo rende il momento e la tua presenza sul palco fresca ed interessante ed è la ragione della libertà nella musica che scrivo per il trio. Dall’altra parte c’è la composizione e i ruoli che ci scambiamo di continuo durante il concerto, in modo da lasciare il sapore della scrittura, attraverso la melodia, le armonie, il ritmo, le strutture, la polifonia. Sono due le ragioni per gli scambi costanti di ruoli tra noi sul palco e nella musica: la mancanza di una ritmica tradizionale e la voglia di rendere il tutto più avventuroso.



FC: Un’altra formazione dall’organico particolare e la Piano & Percussion Band. Puoi dirci qualcosa della storia e del repertorio di questo gruppo?


AT: Nel 1995 stavo realizzando un piano solo. Uno dei miei brani preferiti era Ta boa Santa di Egberto Gismonti, per il quale avevo realizzato un particolare arrangiamento al pianoforte, con molte parti libere all’interno. L’ultimo giorno della sessione, avevo in mente di suonare questo e altri brani, accompagnata da molti percussionisti, semplicemente per divertimento. È cominciato tutto così. L’album Çesitlemeler/Variations di The Piano & Percussion Band contiene versioni fortemente arrangiate, variate e ricomposte di alcuni brani molto conosciuti, mie composizioni e molte parti improvvisate. Ho scelto brani di Carla Bley, Egberto Gismonti, Chick Corea, Jan Garbarek, Secaattin Tanyerli (un compositore turco di tango), Bora Akün (un altro compositore turco), Claude Debussy, Shadow Fax e Hasta Siempre…



FC: In questo caso, resta aperta la questione che riguarda la libertà e i ruoli da coprire, anche se ci si muove in un’altra direzione. Qual è stato il lavoro per risolvere questi problemi e realizzare la musica per il gruppo?


AT: La base musicale di questa band è, prima di tutto, la tessitura sonora delle tante percussioni unita all’assenza di uno strumento che regolarmente copra il ruolo del basso. Così, alcune volte è il davul a prendersi questa responsabilità. Inoltre nella nostra musica alcune persone sentono le percussioni come strumenti intonati, da cui scaturiscono accordi e melodie. Per realizzare la musica abbiamo provato moltissimo e con grande piacere e divertimento. Ho registrato molte di queste sessioni e le ho riascoltate per sviluppare idee: abbiamo sperimentato molto e prima di registrare il disco abbiamo suonato il repertorio per tre anni nel corso dei nostri concerti.



FC: Qual’è l’influenza della musica tradizionale turca sulla tavolozza dei tuoi suoni?


AT: Ho educato il mio orecchio ad ascoltare tutti i diversi generi di musiche tradizionali, le ricordo sin dalle mie prime esperienze musicali. Credo che quando improvvisi, in un certo senso è come sognare e le tue prime memorie musicali funzionano come i simboli e gli archetipi dei sogni. Sappiamo come un kudüm (tamburo tipico della tradizione turca – n.d.t.) debba essere suonato e quale sia la sua voce, anche se non si sa suonarlo personalmente: questa è quella che possiamo chiamare brevemente la cultura musicale. Ovviamente, questo bagaglio non è solamente nella mia memoria ma anche nel mio ambiente musicale di oggi.



FC: Come hai scoperto il jazz?


AT: La prima volta che ho sentito nominare la parola jazz, ero in una stanza di pianoforte del conservatorio, insieme ad un’altra bimba di otto anni, come me, e con due ragazzi che sono entrati e volevano mostrarci qualcosa di totalmente diverso e, a sentir loro, estremamente divertente. così, hanno cominciato a suonare, per quello che ricordo, un brano di ragtime. Io non avevo mai sentito nulla di simile prima: così vivo e gioioso. In quel momento la porta si è aperta violentemente e il vice direttore del conservatorio è entrato, puntando direttamente il dito contro il più grande dei ragazzi e e ha urlato con quanta voce aveva in corpo: “State suonando del Jazz! Sarete puniti molto duramente!…” Questo succedeva negli anni settanta. Durante i miei studi tutti i ragazzi volevano che io suonassi qualunque brano di musica pop. Non riuscivo ad ascoltare molto queste canzoni, quantomeno in modo approfondito, perché il fatto di studiare contemporaneamente in due scuole, mi lasciava pochissimo tempo: per cui chiedevo alle persone di cantarmi la melodia e suonavo gli accordi trovandoli al momento. Credo che aver praticato quest’approccio per dieci anni, sia stato un forte esercizio per avvicinarmi al jazz e all’improvvisazione.



FC: Qual è il tuo rapporto con gli standard e la tradizione del jazz?


AT: Quando apprendevo i primi rudimenti del jazz, sicuramente ho appreso molti standard di jazz, ma non ho mai amato suonarli dal vivo. So che sono molto importanti e so che non è semplice esprimere qualcosa di speciale attraverso gli standard, padroneggiando la musica… ad esempio, Herbie Hancock ha suonato una versione di Footprints, durante l’ultimo concerto che ha tenuto ad Istanbul, davvero fantastica. Suonare gli standard come fanno molte persone, con la struttura solita – intro, tema, la successione degli assolo, tema e finale – mi sembra limitante. Amo le architetture in musica come accade nella musica classica, amo costruire e inventare nuove forme. Per quanto riguarda la tradizione, ho imparato molto specialmente da Lennie Tristano e dai musicisti dell’era del Bebop: ci sono ancora tante cose da imparate da quei dischi, li trovo molto istruttivi.



FC: Hai dato vita, negli anni ’80 e negli anni ’90, il gruppo Mozaik. Qual’è stata la storia di questa formazione e quali sono stati i territori musicali che avete esplorato?


AT: Mozaik univa elementi del rock con accenti della musica classica occidentale, del jazz e della musica tradizionale turca. Il gruppo eseguiva sia musica strumentale – un rock sinfonico o un jazz dal suono ECM o ancora del pop jazz con dei richiami alla nostra musica popolare – ma anche della canzoni, più simili alle ballad. Il gruppo Mozaik ha avuto diversi significati per la cultura in Turchia. Innanzitutto, abbiamo continuato a suonare dal vivo, durante gli anni del colpo di stato degli anni ’80 e abbiamo insistito nel fare musica per conto nostro, dal momento che Mozaik era un’esperienza marginale anche nella scena “marginale”. In quel momento, per alcuni settori della nostra società, la chitarra rappresentava uno dei simboli dell’invasione della cultura straniera, in opposizione all’oud, il nostro strumento tradizionale è l’oud: Mozaik era contro l'”invasione” ma avevamo la chitarra e, in alcuni casi, la chitarra elettrica, a fianco, però, del ney o della darbuka. Infine, non tutto ciò che è moderno veniva necessariamente da fuori, ma, ad esempio, alcune nuove canzoni turche scritte qui, da noi, che rappresentavano benissimo il nostro tempo e i nostri sentimenti: Mozaik ha mostrato che tutto ciò era possibile.



FC: Puoi disegnarci un panorama delle attività jazz in Turchia?


AT: Ci sono diversi festival jazz in Turchia: Istanbul Jazz, Akbank Jazz, in Ankara, Izmir, Bodrum, Eskisehir, Alanya, Afyon, Samsun. Oggi ci sono club molto importanti come il Nardis, il JS’s e il Naima e, nel corso degli anni, ne sono stati aperti e, purtroppo, chiusi molti altri sin dagli anni ’70. Abbiamo un jazz magazine che esce regolarmente ogni tre mesi e due università hanno ora un dipartimento jazz, il Bilkent ad Ankara e il Bilgi ad Istanbul, anche se, lo scorso anno, Bilgi lo ha mutato in dipartimento di ingegneria del suono. Ogni anno, durante l’Istanbul Jazz festival ci sono moltissimi seminari. Ovviamente questo non è tutto e per altre informazioni si può visitare la pagina web del Nardis jazz club.