Foto: da internet
Slideshow. Tony Rusconi.
Jazz Convention: Tony, così, quasi a bruciapelo, cos’è per te la batteria?
Tony Rusconi: Nei momenti più importanti una sorta di emancipazione del ritmo che accoglie parametri di suono. Insieme questi elementi mi fanno assumere un atteggiamento artigianale verso i materiali di cui ho bisogno. E comincio lo studio con questi. Normalmente provo moltissimo studiando momenti topici. Ma ho suonato anche lo stile di Detroit e il rock…Ho fatto l’orchestrale a lungo.
JC: Erano davvero formidabili (come ha scritto Mario Capanna) quegli anni Settanta, quando hai fondato l’OMCI, Organico di Musica Creativa e Improvvisata?
TR: Non formidabili ma importanti in quanto artisticamente parlando hanno portato ad un cambio radicale nel modo di suonare e di comporre. Sono stati anni di “sostituzione”, di cambiamento di concezione, non di trasversalità o revival come accade oggi. Soprattutto nel ritmo, che con una velocità impressionante, quasi Futurista, cambiava il rapporto con gli altri strumenti e obbligava anche i solisti e i compositori a fare cose diverse. Senza falsa modestia l’OMCI è stato per l’Italia una bomba. Lo hanno ravvisato sia il successo internazionale ( rimosso dall’imperante revisionismo culturale) che gli addetti ai lavori in quanto eravamo a metà tra il free americano e le nuove concezioni europee. Anni importanti perchè esisteva un rapporto diffuso con la territorialità. Oggi tutto ciò è diventato virtualità mediatica. Certo ho avuto la fortuna di esserci. Era la mia generazione. Una vera fortuna conquistata a caro prezzo.
JC: Suonando soprattutto con gli esponenti dei radicalismo europeo, cosa è cambiato nel jazz e nei tradizionali ruoli di solista e accompagnatore?
TR: Pur essendo tra i più giovani, il tempo storico era quello. E per i percussionisti è stato un modo di provocare o accettare la natura dell’emancipazione ( non c’è nella musica improvvisata e nel jazz in generale nessun cambiamento se non cambia la concezione ritmica. Ma non muta niente se non hai l’interplay intellettuale con i partners). E’ stato un modo di cambiare la concezione ritmica senza dimenticare il ritmo. Un po’ come praticavano Lacy o Rutherford, Parker e Mengelberg ecc. ecc.. Non occorreva pensare di abbandonare ideologicamente il ritmo per entropia degli stili ( questo lo aggiungo io). Ma di accogliere e trasformare. Senza negare niente e nessuno. Mica facile!!! Oggi non è così. Gli artisti si preoccupano di ” comunicare” e di ” esserci”. Quindi di fare revival e di imitare, cosa che paga sempre, perchè il già detto al pubblico di oggi piace molto ( ma anche agli assessori e agli organizzatori). Sono stati educati a questo no? Per fortuna non è sempre così. Centro e margine. Poi il margine ritorna al centro trionfante, non minoritario usando anche le tradizioni ma senza stili ed epoche precise.
JC: Cosa pensi dei grandi batteristi afroamericani nella linea Kenny Clarke, Max Roach, Art Blakey, Elvin Jones, Billy Higgins, che va dal bop al free?
TR: Per le percussioni ecco una parte dello studio a cui mi riferivo. Possiamo noi praticare live quelle musiche senza fare del banale revival? Poi per me che mi occupo di composizione c’è un’ulteriore dose…In loro ci sono i germi della modernità. Aggiungiamo pure Philly Joe Jones, gli ellingtoniani e Roy Haynes. L’elenco comunque sarebbe più lungo.
JC: L’anno scorso è uscito un DVD con te e il chitarrista inglese Fred Frith: qui che ruolo giochi?
TR: Non c’è la batteria ma set di percussioni. Conoscendo meglio il filmato davo io i tempi dei cambi e degli stacchi cercando di cambiare situazione ogni volta all’interno del tappeto sonoro di Fred che non è un improvvisatore canonico ma è un compagno di avventura con il quale mi sono trovato a meraviglia. Quindi Suono, ritmo e combinazioni aeree istantanee. Al contrario non avrei fatto il dvd.