Jamie Baum. Solace.

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Jamie Baum. Solace.


Jazz Convention: Ascoltando il disco si ha l’impressione di forte unitarietà… Qual era l’obiettivo di partenza quando hai iniziato a comporre i brani?


Jamie Baum: In Solace sono presenti The Ives Suite – che mi era stata commissionata dalla Chamber Music America’s New Works per il mio settetto – e altri brani che sono stati influenzati da altri compositori. In particolare, Solace mi è stato effettivamente ispirato dopo aver ascoltato un concerto di Kurt Rosenwinkel: la sua musica ha un tale calore, da farmi venire voglia di scrivere qualcosa che avesse quel feeling. Come ho scritto nelle note di copertina del CD, in generale non tendo a scrivere in maniera programmatica o per raccontare con la mia musica: preferisco che sia l’ascoltatore a lasciarsi prendere dal suono e a tessere la sua propria storia. E’ più facile, nella mia ottica, parlare della musica e dei musicisti che mi hanno ispirato: Charles Ives e Kenny Wheeler sono due artisti, in particolare, che hanno influenzato questo disco, anche se alcune tracce, ad esempio Solace, come detto sopra, Dave’s Idea e Far Side nascono con altre influenze. Nel 2003, come dicevo prima, ho avuto la fortuna di ricevere una borsa di studio dal CMA, finanziata dal Doris Duke Charitable Foundation, per scrivere musica per settetto, avendo come ispirazione alcune composizioni di Charles Ives. Mentre decidevo su quali pezzi concentrare i miei sforzi, il mio amico Frank Tafuri mi ha offerto i biglietti per andarlo ad ascoltare in concerto con il Dessoff Choir e la Filarmonica di New York: nel programma c’era la Quarta Sinfonia di Ives. La strumentazione comprendeva una orchestra completa e un coro di grande dimensioni, ma anche un theremin, due pianoforti, la celesta, l’organo, una serie di altri strumenti non-convenzionali e due direttori. Non avevo mai sentito questo brano prima, ma nemmeno qualcosa di simile: ero completamente impressionata, è stata un’esperienza incredibile e un brano incredibile. Tra la Quarta Sinfonia e la sua ben nota composizione The Unanswered Question, una delle mie preferite, ho capito quale fosse la mia direzione. Il risultato è The Ives suite. Ispirata dalla Quarta Sinfonia, ho deciso di chiamare le prime due parti, Time Traveler, perché, dopo aver sentito il suo pezzo, è evidente come Ives fosse, ed è ancora, in anticipo sui tempi. The Unanswered Question è stata la base della terza e della quarta parte. Il mio obiettivo non era riorganizzare la sua musica o rendere il mio suono simile al suo, quanto tentare di comunicare lo spirito della sua musica in un contesto jazz.



JC: La musica che hai scritto per Solace ha una dimensione orchestrale: da una parte c’è un ensemble di grandi dimensioni e, dall’altra ci sono sempre diversi strati sonori. Come hai lavorato in questa direzione?


JB: Ho cercato di sfruttare al massimo tutte le possibilità di ogni strumento. Soprattutto il modo in cui ho accoppiato i vari strumenti, utilizzando registri diversi e “estremi” di ciascuna voce: ad esempio, usato il pianoforte come elemento percussivo, armonico e melodico e così via per gli altri strumenti. Aver studiato e suonato la musica classica e la laurea in composizione mi hanno portato a cercare la maniera per espandere il formato tradizionale jazz. Uno dei miei obiettivi è sempre stato disegnare un ruolo più integrato per il flauto in un gruppo jazz, rispetto al solito: ci sono voluti diversi anni prima di ottenerlo. Esplorare l’uso di una “prima linea” costituita da una strumentazione non convenzionale nel jazz, avere un approccio alla sezione ritmica tradizionale in un ruolo meno funzionale, mi ha offerto una tavolozza più variegata, con possibilità illimitate. Mettere il corno francese in opposizione al trombone e il sax alto rispetto al tenore conferisce al gruppo un suono meno pesante e permette al flauto di avere più spazio .



JC: A proposito, hai lasciato spesso il flauto in background o hai focalizzato l’attenzione sugli altri strumenti. Qual è la tua concezione di bandleader?


JB: Il mio obiettivo è quello di creare quanti più contrasti e variazioni di suono possibili. Per diversi anni ho suonato con le impostazioni tradizionali del quartetto o del quintetto jazz, dove il flauto suona la melodia o “davanti” al gruppo. Ma negli anni precedenti, avevo eseguito le Sonate per Trio e le Fughe di Bach e questa esperienza mi ha fatto capire quanto sia divertente e quanto sia più interessante permettere a tutti gli strumenti di prendere l’iniziativa nei vari momenti del brano. Suono spesso in situazioni dove guido il gruppo: in questa band, totalmente di mia concezione e dove vengono suonate tutte mie composizioni, ho voluto condividere la ribalta con gli altri, anche perche i musicisti della mia band sono davvero bravissimi!



JC: La parte centrale del disco è una suite dichiarata: The Ives Suite. Hai deciso di chiamare un attore per la terza e la quarta sezione della suite e tutte e quattro le parti hanno un titolo filosofico. Qual è il lato “semantico” della suite?


JB: Avevo l’impressione che Ives avesse fatto una dichiarazione filosofica e possibilmente politica con il suo brano The Unanswered Question, su cui sono basate la terza e la quarta sezione della suite. Ho provato a fare lo stesso a modo mio, aggiungendo la giustapposizione di estratti da un discorso di Kennedy sulla guerra del Vietnam e una poesia che avevo scritto nel 2007 sull’impegno degli Stati Uniti nella guerra in Iraq e sull’amministrazione Bush.



JC: Questi quattro brani sono anche, a mio parere, la sezione più aperta e avant-garde del disco.


JB: Ives usa molto la multitonalità e ritmi multipli, sovrapposti e spostati. Ero intrigata dall’idea di provare ad utilizzare simultaneamente due o più pezzi diversi: le sue due composizioni che sono alla base della mia suite hanno melodie accessibili che si sviluppano su ritmi e armonie molto complessi, combinate con la propensione di Ives a lasciare nelle sue composizioni un po’ di spazio per l’interpretazione del musicista. Questi concetti mi hanno attratto e guidato nel lavoro e ho cercato di rispettarli sia nello spirito che nella pratica, portando poi in essi la mia sensibilità jazzistica.



JC: In tutto il disco, ho percepito il tuo forte interesse per la scrittura, come se tu volessi dichiarare in modo preciso ogni elemento della tua musica.


JB: Come la maggior parte dei musicisti jazz, mi piace suonare gli standard, i brani del repertorio e, nel corso degli anni, ho speso un sacco di tempo in questa direzione. E come molti musicisti che conosco, sono stata anche molto interessata a suonare altri stili di musica – classica, brasiliana, latina, avant-garde, indiana e via discorrendo. Sono interessata anche all’idea di creare brani che riflettano in qualche modo entrambe le mie esperienze, così come i miei sforzi di utilizzare altre forme espressive in cui il materiale scritto e le improvvisazioni siano sempre più integrati. Il jazz, a mio parere, è sempre stato evoluzione, sviluppo di una voce personale e incorporazione di altre influenze e mi vedo come parte di questa tradizione.



JC: Hai dedicato Wheeler of Fortune, la seconda traccia del disco, a Kenny Wheeler, un musicista profondamente coinvolto nella scena europea: qual è il tuo rapporto con i jazzisti europei e con il loro approccio al jazz?


JB: Nel 2006, sono stata invitata insieme al mio gruppo ad esibirmi e ad insegnare a Fairbanks in occasione del Jazz Festival della University of Alaska. Glenn White, direttore artistico del festival, eccellente musicista e amico, ha scelto con ottimo gusto la Sweet Time Suite di Kenny Wheeler, per il nostro concerto insieme alla big band. Sono una sua fan da sempre e così si è creata una buona occasione per avvicinarsi davvero al calore, alla bellezza e all’energia caratteristica della sua musica. Poco dopo quel viaggio ho scritto Wheeler of Fortune. Per quanto riguarda la tua domanda, io non conosco abbastanza la scena jazz europea e i molti grandi musicisti che suonano da voi. Purtroppo, è solo da poco tempo fa che abbiamo loro notizie e che hanno la possibilità di suonare a New York. Diversi anni fa, suonavo spesso con il pianista Salvatore Bonafede quando viveva a New York, appare su Undercurrents, il mio primo CD pubblicato dall’etichetta tedesca Konnex. Salvatore mi ha parlato di alcuni musicisti e altri me ne ha presentati quando era negli Stati Uniti. Da quando poi ho avuto modo di suonare più spesso in Europa, ho iniziato a conoscere meglio alcuni di essi, anche se, com’è ovvio ho sempre conosciuto i musicisti più celebri come Kenny Wheeler.