Young Jazz 2010. Il festival

Foto: Fabio Ciminiera









Young Jazz 2010. Il festival.

Foligno, 30.5/2.6.2010


Il racconto della sesta edizione di Young Jazz può partire da un paio di spunti non provenienti dai palchi del festival. In primo luogo la scelta di affidare, per la prima volta, “all’esterno” la direzione artistica della rassegna: la scelta è caduta in questo caso su Gianluca Petrella, musicista per altro “organico” a Young Jazz sia per la presenza in molte delle edizioni precedenti del trombonista, sia per la collaborazione tra Petrella e Giovanni Guidi, direttore artistico fino al 2009, ma anche per la convergenza tra i progetti di Petrella e molti progetti visti negli scorsi anni a Foligno. Questo per dire come il passaggio di testimone non si sia avvertito come uno strappo quanto come una prosecuzione del lavoro fatto nelle prime cinque edizioni. E, sicuramente, il calendario ampio e quanto mai variegato delle iniziative collaterali, diffuse per tutto il circondario di Foligno e rivolte in tante specifiche direzioni.


Il cartellone principale del festival, svoltosi come di consueto all’Auditorium San Domenico, ha proposto nell’arco di cinque serate l’incontro di Petrella con Paolo Fresu, Rollerball, Luca Aquino Lunaria Quartet, la Urban Society di Gaetano Partipilo, Ray Anderson’s Pocket Brass Band, il Fabrizio Bosso Dynamic Trio e, infine, Vago Svanendo, il nuovo progetto di John De Leo. Una scelta tutto sommato coerente con quelle fatte negli anni passati, dove ai giovani musicisti emergenti sono sempre stati affiancati interpreti attenti alle possibilità meno canoniche del linguaggio del jazz.


D’altronde il festival è cresciuto e, in un certo senso, si coglie anche la maturazione di determinati percorsi o il confronto con esperienze alle quali la definizione di “emergente” può stare stretta. In questo senso si deve intendere la presenza del quintetto di Gaetano Partipilo o della formazione di Luca Aquino: caratterizzate, entrambe e in maniera peculiare, dallo sguardo alle avanguardie, sonore e linguistiche, da una grande personalità espressiva e da una naturale dimensione melodica. E anche la parabola delle formazioni proposte negli anni dal Gallo Rojo, rappresentate quest’anno da Rollerball, Pospaghemme e Thrill. Esperienze che testimoniano il percorso di un particolare filone del jazz italiano, capace di legare tradizioni, avanguardie, le tante suggestioni musicali dell’attualità in una sintesi – a volte schizofrenica, a volte più meditata – dove tanti elementi gioco forza convivono nella musica suonata perché compresenti negli ascolti e nelle ispirazioni dei musicisti.


Allo stesso modo, la presenza di John De Leo e del suo nuovo progetto, Vago Svanendo, ha portato per la prima volta sul palco di Young Jazz una prospettiva sulla musica d’autore italiana. De Leo intercetta sicuramente, per la sua storia musicale e per la ricerca vocale, lo spirito e molti degli ingredienti della rassegna: dalla presenza di un musicista come Achille Succi nella formazione, alla concezione stessa del gruppo senza sezione ritmica, ma aperto di continuo ad una serie di accostamenti timbrici e, infine, alla sperimentazione sonora e vocale.


Una delle curiosità maggiori del festival era legata al suo concerto di apertura, vale a dire l’incontro in duo tra Paolo Fresu e Gianluca Petrella. Tromba, trombone e apparecchiature elettroniche per filtrare i suoni e costruire le fondamenta armoniche e ritmiche alle evoluzioni dei due solisti. Escursione musicale a due e più voci tra standard e gioco, tra prospettive sonore e personalità di due interpreti da tempo abituati a cimentarsi con la pratica del dialogo sul palco, con una ampia e quanto mai enciclopedica galleria di colleghi: a colpire maggiormente in questa circostanza è stato il rapporto tra due esperienze mature, vicine ma appartenenti a generazioni diverse, una conseguenza dell’altra, se si vuole, ma ormai paritarie.


La serata dedicata agli ottoni, con la Ray Anderson’s Pocket Brass Band e il Fabrizio Bosso Dynamic Trio, è stata forse quella più rivolta alla tradizione. Portare due esperienze simili all’interno del festival può essere letto in maniera quanto meno duplice. Da una parte, c’è la considerazione della crescita della rassegna e, di conseguenza, la sua presenza e la sua rappresentatività sul territorio e quindi di non respingere il pubblico con una programmazione monolitica o integralista. Dall’altra c’è l’intenzione di manifestare come la tradizione sia, comunque e piacevolmente, una delle anime ispiratrici del jazz di oggi, anche e soprattutto di quello che vuole evolvere il linguaggio. Nel festival c’erano sempre stati in cartellone giovani interpreti alle prese con un repertorio più canonico, quest’anno la scelta è caduta su due band dal percorso diverso e formate da musicisti affermati e riconosciuti dal pubblico.


Se le attività collaterali e l’incontro con le altre associazioni e realtà culturali di Foligno e del circondario sono da sempre state cifre caratteristiche di Young Jazz, la vera maturazione della sesta edizione è stata portata dall’attenzione specifica e dalla varietà di iniziative organizzate quest’anno: incontri con i musicisti, un ristorante jazz, concerti nei musei del territorio e la scelta di concludere il festival con una giornata svolta completamente al di fuori dell’Auditorium San Domenico. Affronteremo il discorso in un altro articolo, dove metteremo in evidenza il dialogo con il territorio e le tante iniziative prese. Dal punto di vista musicale, è stato in questo percorso “esterno” che il festival ha mantenuto maggiormente, in maniera specifica e serrata, il legame con la sua storia: Antonello Salis in solo, Alfonso Santimone Thrill con Danilo Gallo e Zeno De Rossi, Pospaghemme ovvero Beppe Scardino e Federico Scettri, il duo formato da Daniele Tittarelli e Enrico Bracco e Joe Rehmer Tazer Room.


Purtroppo non sono riuscito a seguire il concerto di Daniele Tittarelli e Enrico Bracco. Le performance in solo di Antonello Salis ormai formano una categoria a sé: coinvolgenti, sempre in movimento, spiazzanti, Salis è un musicista in grado come pochi di creare empatia con gli ascoltatori, la sala e i suoni dell’ambiente, in grado come pochi di centrifugare frasi e temi per trarne fuori la sua musica. Joe Rehmer Tazer Room e Pospaghemme sono accomunati da una estetica di sintesi: improvvisazione giocata su temi brevi e rivolte al disegno di atmosfere morbide nel primo set, dure e aggressive nella seconda parte, condite da suoni rock, punk e elettronici, per la formazione americana; dialoghi acustici, con radici tanto nel dixieland quanto nel free e con un’estrema libertà interpretativa, dove anche testi, rumori e presenza scenica diventano elementi del linguaggio, per il duo italiano. Thrill è stato, se si vuole, il concerto più sorprendente del festival: i suoni classici del piano trio applicati a una concezione estremamente aperta e moderna, lunghi spazi modali giocati con estrema attenzione alle dinamiche del trio e all’acustica delle Logge del Mercato di Bevagna, grande interplay e capacità di tenere sempre in mano il pallino del racconto.


Infine, una parola va spesa per la bellezza pura dei luoghi scelti per i concerti. Le logge del mercato di Bevagna, i complessi museali di Trevi e Montefalco, la Rocca di Gualdo Cattaneo e il Museo Enrico Bracco di Spello: posti davvero magnifici… ma, come detto, di questo riparleremo presto…