Slideshow. Piji

Foto: Cristian Trappolini










Slideshow. Piji Siciliani.


Jazz Convention: Mi racconti il primo ricordo che hai della musica?


Piji Siciliani: I primi ascolti li ho fatti grazie a mia sorella. Ai suoi 33 giri che ascoltava ballando. Soprattutto Edoardo Bennato all’inizio, ricordo che creò perfino una coreografia per me su “È stata tua la colpa”. Poi De Gregori. Poi tutti gli altri mentre iniziavo a copiare i suoi dischi su musicassette vuote per me. Nel frattempo, con mio cugino, scrivevamo già le nostre prime canzoni. Molto meglio di quelle che scrivo oggi…



JC:Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un cantante jazz?


PS: Io amo il jazz profondamente e il linguaggio jazzistico permea diverse mie canzoni soprattutto dal punto di vista armonico e in secundis dal punto di vista dell’arrangiamento, della strumentazione live, dei fraseggi di alcuni strumentisti, delle melodie del cantato e delle ritmiche. Ma non credo di essere un cantante di jazz. Viceversa direi “cantautore”, che spesso e volentieri macchia le sue canzoni con qualche elemento jazzistico. Anche il mio timbro e il mio modo di cantare è molto più vicino all’idea vocale del cantautore che a quella del jazzista. Sui motivi che mi hanno spinto a studiare jazz nella chitarra e nella voce e a riportare nelle mie canzoni quel bagaglio, ci sono di nuovo i cantautori italiani e gli ascolti con mia sorella: un giorno in un pianobar di un albergo sulla neve, ascoltai una vocalist cantare Un sabato italiano di Sergio Caputo. Oltre a ricordarmi che c’era anche Caputo tra gli ascolti in camera di mia sorella, capii che quel modo di fare canzone era diversissimo da tutto ciò che avevo ascoltato fino ad allora. E allora iniziai ad ascoltare più approfonditamente Sergio (a mio parere cantautore ancora relativamente incompreso rispetto alle sue grandi capacità di intreccio inscindibile tra musica e parole) fino ad innamorarmi del jazz vero e proprio, a volerlo studiare e a volerlo ascoltare in ogni locale dove ne facessero. C’è stato un periodo in cui ogni sera ero in un jazz club romano ad ascoltare.



JC:Chi sono i tuoi maestri nel canto jazz? e nel jazz strumentale? e nella musica in genere?


PS: Adoro la voce di Bing Crosby così come quella di Paolo Conte, credo una l’opposto dell’altra ma entrambe meravigliosamente jazz. Le grandi voci femminili storiche, ovviamente. Nella chitarra i miei preferiti sono senza ombra di dubbio Jim Hall e Django, anche loro di due mondi diversissimi. Sarebbe impossibile dimenticare la mia passione per la fantasia armonica di Stefano Bollani che cito a simbolo di una lunga lista di jazzisti italiani che stanno facendo grande il nostro paese dal punto di vista jazzistico. Bollani, come del resto Ada Montellanico e diversi altri jazzisti nostrani, sono per me inoltre un interessante ponte tra il jazz e la canzone, un ponte di “risposta” ai cantautori innamorati del jazz, da Natalino Otto a Buscaglione, fino a Conte e Caputo, appunto. Jazz e canzone italiana sono le due cose che ho amato e ascoltato di più fino a qui, tanto da voler fissare questo connubio in un saggio che ho scritto un paio d’anni fa. Tornando al concetto di maestri, però, credo che le mie canzoni nascano soprattutto da ciò che ho studiato: di conseguenza i maestri più diretti credo siano stati i miei maestri veri e propri, coloro da cui sono andato a lezione, Luca Chiaraluce, Roberto Nannetti e Raffaela Siniscalchi su tutti.



JC:Quale resta per te il momento più bello della tua carriera di musicista?


PS: Anche se ho praticamente appena cominciato, i momenti da ricordare sono molteplici. I primi palchi su cui salivo solo da “bevuto”, ogni premio che ho vinto e la trepidazione per il momento del verdetto (al Premio Bindi, ad esempio, poco prima di sapere della mia vittoria, credo di aver fumato di fila un numero indefinito di sigarette). Ma forse la serata più bella è stata quella dello scorso 12 novembre 2009, quando sono stato ospite del Premio Tenco al Teatro Ariston di Sanremo. E non perché nella mia stessa sera c’erano Franco Battiato e Angelique Kidjo, ma perché era il mio sogno più grande. Partecipare alla più importante e bella manifestazione riguardante la canzone italiana. Qualche anno fa pensavo che se mi avessero invitato al “Tenco” avrei persino potuto smettere di suonare subito dopo. Poi mi sono fatto prendere la mano e sono ancora qua…



JC:Tra i brani che hai registrato, quale ami di più e perché?


PS: Questa è proprio una domanda difficilissima. Rispondere sarebbe tradirmi, perché cambio idea di continuo, non ho un’opinione stabile delle cose che scrivo. Posso dirti che dal punto di vista della registrazione sono molto soddisfatto di Madama pioggia e posso anche dirti che Lentopede è una canzone che è uscita proprio come avrei voluto che uscisse quando ancora non l’avevo scritta. Oltre ad essere un’efficace auto-descrizione (non è un caso che ci abbia intitolato il mio primo EP), quello che mi piace di Lentopede è il suo “disfarsi”, il suo “sporcarsi”, il suo “rovinarsi”. Parte come ballad jazzistica molto romantica, per poi “svaccare” nel ritornello: l'”incazzatura” testuale ha ben poco di romantico e allora, da un clima raffinato si passa improvvisamente ad un “pop” più diretto e ad un testo che, da romantico che era, diventa perfino sboccato. Mi piace pensare che sarebbe stata una ballad perfetta se non ci si fosse messo in mezzo quel Dj a farmi incazzare… è uscito ciò che volevo che uscisse, per questo mi piace.



JC:Come definiresti il jazz?


PS: Il jazz è il linguaggio più aperto e indefinibile, pur avendo un’incredibile riconoscibilità. È la musica più importante dal Novecento in poi e, per quel che mi riguarda, la più affascinante in assoluto. Il bello del jazz, poi, è il suo essere multilivello. L’orecchio più esperto gode ogni frase dei solisti, li sente quasi “parlare” una lingua, e sente ogni parola del resto della “ciurma” ad accompagnare. Ma chi non conosce la lingua può comunque godere dell’atmosfera d’insieme, magari battere il piede con swing e ascoltare un clima di grande attrattiva, anche senza capirlo parola per parola.



JC:Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?


PS: Innanzitutto mi piace la parola. Mi fa impazzire quella doppia “z” finale così come la “j” iniziale. Mi verrebbe da scrivere di continuo la parola “jazz” ovunque. E poi la complessità intesa come ricchezza mista alla fluidità delle sue ritmiche. La non sciatteria, la non superficialità, il non pressappochismo. Il cervello che si muove e che non è più possibile che si atrofizzi. La profondità dello studio riportata sul palco con assoluta leggerezza. Il rigore e il gioco uniti in maniera inscindibile.



JC:Come vedi, in generale, il presente della musica jazz?


PS: Dal punto di vista artistico ognuno la vede come vuole. C’è chi dice che è finito e chi dice che si evolve continuamente. Su questa diatriba non entro, sarebbe lungo. E poi, per come la vedo io, non è importante l’innovazione, ma la bellezza. È impossibile ragionare con la velocità dei cambiamenti che ci furono dallo swing al bebop, al cool e al free, quindi se anche stesse fermo un turno, il jazz sarebbe comunque meraviglioso. Quello che, invece, mi piace sottolineare è che dal punto di vista della fruizione il jazz di oggi si è finalmente liberato da tutti i pregiudizi che l’hanno accompagnato. Dai tempi del regime fascista in cui venne addirittura considerato “fuorilegge” perché americaneggiante e “negroide”, per passare alle accuse di elitarismo, di “puzzasottoilnasismo”, di “borghesismo”. Oggi, fortunatamente, è considerato una musica “normale”, che potenzialmente tutti possono ascoltare, capire, apprezzare, studiare e suonare. E per questo dobbiamo dire grazie a cent’anni di battaglie e di artisti battaglieri.



JC:Quali sono i tuoi progetti musicali per il futuro?


PS: Credo sia arrivato il momento di fermarsi con i tanti live e premi di questi ultimi tre anni e far confluire tutto in un disco ufficiale fatto per bene. Sto aspettando che qualcuno mi dia lo “start”. One, two… One, two, three, four…