Michele Francesconi: The Evolution of Solo Jazz Piano.

Foto: Fabio Ciminiera










Michele Francesconi: The Evolution of Solo Jazz Piano.

Faenza, Scuola di Musica Giuseppe Sarti – 30.5.2011.

L’evoluzione del piano solo attraverso ventiquattro pianisti. Seguendo le orme tracciate da Bill Dobbins nel quarto volume di Contemporary Jazz Pianist, intitolato appunto The Evolution of Solo Jazz Piano, Michele Francesconi ha condotto un seminario-concerto in cui sono state visti, analizzati e confrontati i diversi approcci al piano solo. Personalità, generi, attitudini stilistiche di ventiquattro interpreti tra i più rappresentativi del pianoforte jazz del novecento applicati ad una pratica ardua e affascinante come quella di affrontare uno strumento “orchestrale”, il pubblico, il repertorio, il proprio ego in totale solitudine.


Il punto di partenza di Dobbins è un brano ricavato sugli accordi di All of me: come secondo passo ha scelto i ventiquattro pianisti e ha composto altrettante variazioni seguendo i tratti salienti delle loro interpretazioni e delle soluzioni applicate da ciascuno di essi. Un lavoro fatto di analisi pianistica, ascolto e studio delle rispettive esecuzioni, approccio alla personalità e alla vicenda umana di ognuno dei pianisti prescelti. La scelta fatta da Dobbins attraversa tutto il secolo – passando da Scott Joplin a Richie Beirach – e guarda solamente ai pianisti statunitensi, elemento che, se da una parte forse costituisce un limite al suo lavoro, dall’altra pone una sfida agli studiosi europei e, comunque, extra-statunitensi a produrre una ricerca simile su altri interpreti.


Francesconi ha condotto il seminario, lavorando su più livelli. Il racconto dei fatti salienti delle vite dei musicisti si è intrecciato immediatamente con i dettagli relativi alle relative attitudini musicali. Ogni pianista è stato trattato da un diverso interprete che oltre ad eseguire la variazione scritta da Dobbins ne ha evidenziato tratti salienti e illustrato con l’ausilio di Francesconi gli elementi caratteristici dello stile sui quali ha lavorato nello specifico il didatta statunitense. Infatti in alcuni casi, per la vastità e l’imponenza del materiale, la scrittura e la trattazione hanno potuto mettere in luce solo una parte degli aspetti alcuni significativi. Alle parole e alle note di Francesconi e dei quindici pianisti coinvolti si sono poi aggiunti alcuni estratti dal video realizzato da Dobbins con le sue esecuzioni delle variazioni.


Il fatto che Dobbins abbia scritto in ogni dettaglio le variazioni, ha permesso a Francesconi di chiamare sul palco jazzisti professionisti, insegnanti di musica classica e allievi dei corsi più avanzati di jazz: una scelta trasversale fatta con la richiesta espressa di mantenere quella che il didatta statunitense, nella prefazione al suo lavoro, chiama “convincing rhythmic feeling”.


L’evoluzione del piano solo passa attraverso stili diversi, la “separazione” tra i pianisti di genere dagli interpreti più personali, l’interpretazione delle singole peculiarità, anche per mezzo del diverso approccio dei musicisti chiamati ad eseguire i brani. Soprattutto l’accostamento delle variazioni dedicate a pianisti coevi ha permesso ulteriori stratificazioni del discorso. L’analisi stilistica dei tre pianisti rag – Joplin, Morton e Johnson – o degli interpreti del boogie – Lewis, Johnson e Yancey – ha portato in evidenza come all’interno di un contesto simile venivano risolti gli aspetti ritmici o agganciati i riferimenti con le soluzioni preesistenti. Ancora più intrigante il confronto diretto tra artisti vicini nel tempo e lanciati in una definizione del tutto originale, scevri da vincoli di appartenenza stilistica, come Hines, Waller, Ellington e Tatum, prima, Monk, Powell, e Peterson, nella prima stagione del bop, o ancora, Tristano e Bill Evans.


I ventiquattro pianisti presi in considerazione sono stati: Scott Joplin, Jelly Roll Morton, James P. Johnson, Willie “The Lion” Smith, Earl Hines, Fats Waller, Teddy Wilson, Duke Ellington, Art Tatum, Meade Lux Lewis, Pete Johnson, Jimmy Yancey, Thelonious Monk, Bud Powell, Oscar Peterson, Errol Garner, Lennie Tristano, Bill Evans, Clare Fischer, Jimmy Rowles, Cecil Taylor, Chick Corea, Keith Jarrett e Richie Beirach. Mentre i pianisti che hanno interpretato e illustrato le variazioni, oltre a Michele Francesconi, sono stati: Gabriele Zanchini, nel ruolo di assistente, e, in ordine di apparizione, Enrico Pelliconi, Giada Rovito, Giampaola Bombonati, Denis Zardi, Raffaello Bellavista, Gina Maria Fano, Silvia Valtieri, Federico Di Camillo, Francesco Santarella, Enrico Ronzani, Gilberto Mazzotti, Luca Bombardi e Claudio Carapia.


Il seminario concepito con le dinamiche e i tempi visti a Faenza – vale a dire cinque ore abbondanti per ventiquattro pianisti – diventa naturalmente un luogo per l’approfondimento tecnico e specifico del piano solo, rivolto in prima battuta ai musicisti. La trattazione discende dal metodo americano e quindi anche per il profano non diventa mai troppo ostica: certamente le questioni tecniche sono state prevalenti nel corso del seminario, ma l’alternanza tra racconto, esposizione, esempi al pianoforte ed esecuzione riesce a dare equilibrio al discorso. Anche la durata complessiva e la quantità di riferimenti spinge ad una fruizione partecipe, anche se bisognerebbe tentare l’esperimento ridotto – nei tempi e nel numero dei pianisti presi in esame – per proporlo anche a un pubblico più vario. Come si vedrà anche nell’articolo dedicato al secondo ciclo di Fusioni nel Jazz Contemporaneo, c’è bisogno di occasioni rivolte ad abbreviare la distanza tra le persone e il jazz – e, in generale, ogni forma di arte e intrattenimento “non televisivo”. La parola – accompagnata da esempi, da riferimenti raggiungibili, dalle esperienze vissute sul campo – diventa una dei possibili chiavi per colmare il gap e dare curiosità e nuovi stimoli alle persone.