Foto: Copertina del libro
Nè prima, nè dopo, Davis è “far out”.
Note in margine al libro “Miles Davis il sound del futuro”.
Guido Michelone, Miles Davis il sound del futuro.
Barbera Editore, Siena 2011.
Con questo libro Guido Michelone non si propone di fornire un quadro completo ed esaustivo della carriera artistica di Miles Davis, nè ha pretese di affrontare l’argomento secondo inedite chiavi di lettura. Piuttosto vuole mantenere alta l’attenzione su un personaggio che ha segnato la musica del novecento, non solo in campo jazzistico. Si tratta in realtà di un collage di articoli dell’autore pubblicati in alcune riviste, collegati secondo un filo conduttore cronologico o diacronico. Sul trombettista di Alton si sono manifestati, spesso, pareri discordanti, soprattutto rispetto alla “svolta elettrica” e al periodo “critico” compreso fra il 1971 e il ritiro temporaneo dalle scene avvenuto nel 1975. Michelone si schiera a favore di quell’ “evoluzione” stilistica, per molti, Arrigo Polillo in testa, una vera involuzione. Nel libro sono analizzate, infatti, con dovizia di particolari incisioni anche postume risalenti a quegli stessi anni. L’ultimo periodo di attività prima dell’uscita temporanea dalle scene gode di un particolare riguardo. Il discusso On the corner viene rivalutato ampiamente e visto come una pietra miliare nella “funkyzzazione” del jazz e questo non potrà che rinverdire il dibattito all’interno degli addetti ai lavori o dei semplici appassionati su questo cd, che vanta una buona schiera di detrattori .
La prospettiva scelta dal giornalista e studioso vercellese è racchiusa nel titolo e illustrata all’interno di tutto il testo. Viene rimarcato, infatti, il ruolo precipuo di innovatore che Davis ha avuto nelle varie epoche, non accontentandosi mai di ripercorrere strade già battute, ma guardando dal presente verso il futuro. In verità il musicista afroamericano non sempre ha anticipato i tempi, a volte ha seguito vie già aperte da altri, si pensi all’uso del modale o al jazz rock, ma con la sua forte personalità ha determinato uno scarto rispetto al resto della produzione, sfruttando intuizioni, idee già in circolo per comporre qualcosa di originale, di più valoroso dal punto di vista musicale.
La vicenda personale del trombettista è accennata solo in alcuni passi, quando serve a spiegare scelte di tipo artistico. E proprio alle varie arti vengono dedicati alcuni paragrafi. Dal rapporto di Davis con il cinema come autore di colonne sonore o come attore alla sua passione competente per la pittura. Un intero capitolo è riservato alle arti figurative con paralleli intriganti fra stile pittorico e musicale.
E’ dato ampio spazio all’analisi del contributo dei collaboratori. Spicca fra gli altri il giudizio molto benevolo su Sam Rivers, una meteora nell’universo davisiano. Il polistrumentista venuto fuori prepotentemente negli anni settanta con alcune incisioni per la Impulse e le sue storiche performances a Umbria jazz, secondo l’autore non è stato accettato e compreso dal leader carismatico per il suo solismo proiettato verso il free jazz e troppo avanzato per l’epoca (1964). Si ritiene, invece, che Davis non fosse propenso a condividere il palco con un sassofonista che “andava fuori” dai binari tracciati non sempre consapevolmente. Insomma Rivers era “falloso” non per un’opzione di fondo, ma per limiti tecnici intrinseci.
Il “dicono di lui” presenta, poi, una serie di pareri di diverso peso e interesse. In particolare si può ricordare quello di Monk. “Prendere a pugni me? A Davis non gli conviene…” Una dichiarazione coraggiosa nei confronti di un uomo che aveva come sport preferito il pugilato… Come non trovarsi d’accordo ancora con Paolo Fresu quando afferma: “Tutto il discorso di Miles è fatto di piccoli aspetti, di silenzio, di suono”, cogliendo l’essenza di un’estetica ben approfondita dal trombettista italiano in più riprese, nel rifacimento di Porgy & Bess in varie situazioni o nel recentissimo progetto Devil/Davis con il suo collaudato quartetto.
Tra i dischi ritenuti indispensabili, oltre ai capolavori unanimemente riconosciuti, spicca la presenza di Cookin’ inciso nel 1956 e mai considerato “da isola deserta”. Per Michelone il cd ha addirittura una facoltà terapeutica, rilassante e consiglia “ascoltare il disco in un tardo pomeriggio d’estate, in un luogo d’ombra, prima di partire per le vacanze, riesce a tirare su il morale…” Che dire: provare per credere…
Osservando più vicino a casa nostra sono riportate le testimonianze sull’aneddottico di Enrico Rava, che è riuscito ad intrattenersi con lo scontroso musicista per mezz’ora in un momento magico dopo un’esibizione. La passione di Rava per Miles è totale e senza riserve. Si ricorda un suo intervento decisamente favorevole durante una diretta radiofonica del primo concerto romano dopo il ritorno sulle scene, negli anni ottanta, accanto ad uno Steve Lacy altrettanto entusiasta. A distanza di tempo Rava non rinnega quanto affermato nella circostanza, ma si dichiara “rapito” soprattutto dal Davis classico, dal debutto sino al 1969.
Fra i tributi che vengono elencati con grande abbondanza di informazioni, risalta l’ottima considerazione nei confronti del lavoro di Bill Lasweel, di Bob Gelden e del suo gruppo Animation. Due nomi fuori o ai margini del mondo del jazz, di cui si apprezzano le riletture del periodo elettrico.
Chiude il libro Massimo Donà con una postfazione piuttosto concettuosa che cerca di dimostrare la rivoluzione formale nel modo di procedere di Davis, attraverso una sorta di capovolgimento di ogni schematismo con la valorizzazione del contributo di tutti i componenti della band. “L’esecuzione funziona come un mantra in virtù del quale ogni musicista potrà interagire con gli altri solo in quanto si sia posto in posizione di reale ascolto dell’accadimento”. Il riferimento a Bitches brew è fin troppo evidente.
In conclusione con questo libro Michelone ha raggiunto il suo obiettivo, di continuare a parlare e a far discutere di un musicista che, come ha scritto Giuseppe Dalla Bona su Musica jazz in una recensione del concerto bolognese del novembre 1973: “Non si colloca nè prima, nè dopo, Davis è “far out” oltre le nostre aspettative e i nostri sogni, al di là della normalità e della mediocrità, fra i grandissimi del jazz.”