Ambrose Akinmusire Quintet e Jacky Terrasson @ Parco della Musica

Foto: dal sito di Ambrose Akinmusire










Gregory Porter Liquid Spirit @ Auditorium. Roma

Roma, Parco della Musica

Ambrose Akinmusire Quintet (14.5.2014)

Ambrose Akinmusire: tromba

Charles Altura: chitarra elettrica

Sam Harris: pianoforte

Harish Raghavan: contrabbasso

Justin Brown: batteria

Jacky Terrasson Solo (20.5.2014)

Jacky Terrasson: pianoforte

Due gustosi appuntamenti nell’arco di una settimana impreziosiscono il già ricco cartellone di maggio dell’Auditorium Parco della Musica di Roma. Fresco di stampa con la nuova uscita discografica, The Imagined Savior is far easier to paint, licenziata appena lo scorso undici marzo, il trombettista americano Ambrose Akinmusire ritorna nella capitale dopo la già brillante esibizione al Roma Jazz Festival del 2012. Classe 1982, l’artista californiano ha già scritto sezioni importanti nel suo invidiabile curriculum avendo inciso due album con la Blue Note, vinto diversi premi, e suonato con parecchi nomi eccellenti del panorama jazz mondiale. Tra coloro che l’hanno più influenzato il sassofonista Steve Coleman che lo fece entrare, ancora giovane, nei suoi Five Elements per una tournée europea, con il caratteristico sound asciutto e metropolitano che ritorna oggi nello stile della musica di Akinmusire.


Rispetto al quintetto con cui si era presentato al suo debutto romano, il trombettista sostituisce il sax tenore di Walter Smith con la chitarra elettrica di Charles Altura, mantenendo invariati gli altri elementi di una formazione collaudata che funziona bene. Seriosi e senza fronzoli, i cinque attaccano con un repertorio basato fondamentalmente sui brani dell’ultimo album che testimoniano e confermano l’ottima capacità di scrittura del leader, fatta di una musica sicuramente non banale e di difficile impatto, che richiede predisposizione e attenzione, ma che pian piano non fatica a farsi apprezzare. Sfruttando il lavoro di Altura soprattutto come solista e quasi mai armonicamente, il trombettista inizia un dialogo serrato, che andrà avanti per tutto il prosieguo del concerto, con i tasti del giovane pianista Sam Harris, bravo e preciso nel seguire passo passo i suoi lunghi fraseggi fatti spesso di note lunghe e brevi pause. Ineccepibile da un punto di vista tecnico, Akinmusire ha ormai raggiunto una maturità artistica ed una personalità di livello, trovando nel suo timbro scuro e distinto sullo strumento la sua voce riconoscibile, inserita splendidamente in arrangiamenti sofisticati e raffinati che non disdegnano sperimentazioni verso territori anche non propriamente jazz.


Anche la ritmica, inizialmente più morbida e posata, non tarda a salire d’intensità in un groove che diviene sempre più calzante, con le pelli ruvide di un Justin Brown finalmente in evidenza e protagoniste nel finale e nei due bis conclusivi. Una performance che conferma quanto di buono si era già visto nella precedente uscita e che proietta giustamente il leader e gli altri musicisti con lui sul palco tra novità più interessanti di questi ultimi anni.


Un’altra piacevole sorpresa è trovare il nome di Jacky Terrasson tra quelli in programma qualche giorno dopo l’esibizione di Akinmusire. Due artisti appaiono notevolmente diversi, ma con un cammino al momento simile: entrambi hanno infatti vinto da giovani del prestigioso riconoscimento Thelonious Monk nei rispettivi strumenti, sono stati messi poi sotto contratto dalla Blue Note, ed entrambi hanno da subito ricevuto elogi dalla critica, ma non il giusto successo di pubblico.


Nonostante il suo talento ed una notevole vena versatile, il pianista di origine francese non è mai riuscito, infatti, ad ottenere la popolarità che meriterebbe, ed i pochi spettatori presenti anche in questa tappa romana ne sono una ulteriore conferma. Eppure l’occasione di vederlo in completa solitudine si presentava ghiotta, dimensione ideale per meglio apprezzare talento ed estemporaneità, ed i pochi presenti non se ne sono affatto pentiti. Timido e sorridente nel presentarsi, una volta davanti ai suoi amati tasti Terrasson riesce ad incantare fin dalle prime note di una lunga quanto affascinante My Funny Valentine, brano iniziale di un concerto che vedrà il susseguirsi di standard jazz, motivi popolari e composizioni originali, perfetto riassunto di una carriera ventennale. Il pianismo di Terrasson è uno splendido concertato di gusto e classe, in cui tradizione classica e blues si fondono in uno stile originale, capace di seguire strade diverse all’interno degli stessi brani, dettate spesso dall’improvvisazione. Il pianista non svela subito i temi dei brani più celebri, ma ci arriva attraverso lunghe introduzioni che lentamente si avvicinano ad una stravolta linea melodica, in alcuni casi non suonata affatto, come in una festosa versione di St. Thomas di cui vengono ripresi soltanto gli accordi. E così i brani vengono dilatati con eleganza senza mai apparire lunghi o troppo appesantiti di note, mantenendosi anzi sempre leggeri ma mai ordinari. Il pianista è bravo anche nella scelta e nella sequenza dei brani scelti, alternando momenti più energici, in cui si segnala una Caravan notevole, a momenti più distensivi in cui vengono omaggiati e stravolti i Beatles di On My Love o il Charlie Chaplin di Smile, in un’alternanza di emozioni che soltanto pochi pianisti riescono a regalare in solo.