Slideshow. Susanna Parigi

Foto: Stefano Videtta, dalla pagina facebook di Susanna Parigi










Slideshow. Susanna Parigi.


Jazz Convention: Susanna, perché un disco su Enzo Jannacci?


Susanna Parigi: Mai avrei pensato in passato potesse accadere. È successo quasi per caso perché un giornalista, Andrea Pedrinelli, ha pensato di coinvolgermi in questo concerto-teatrale. Ho condiviso da subito il tema dello spettacolo e cioè parlare della situazione del giornalismo e della musica in Italia oggi attraverso la musica e le parole di Enzo Jannacci. Ero invece molto perplessa su come il suo mondo potesse venir fuori cantato da una voce così diversa come la mia. C’è voluto del tempo prima che prendessi una decisione definitiva sul partecipare o no al progetto. Quello che soprattutto mi ha fatto passare un po’ oltre le tante paure che avevo, è la convinzione che certi temi non appartengono al passato ma anzi, aiutano a capire meglio il presente; e certe persone come Enzo Jannacci dovrebbero avere sempre un posto privilegiato nella nostra memoria e anche nella memoria delle nuove generazioni, perché sono rare.



JC: Solo Mina, prima di te, molti anni fa, aveva affrontato un cantautore “difficile” come Enzo. A me però sembra che il tuo disco sia molto meglio del suo, perché più originale, più vero, più sentito. Condividi?


SP: Non saprei davvero dire e già il paragone per me è un onore. Anche in questo caso i mondi sono così distanti che non si possono confrontare. Mettendola sul ridere diciamo che “cantiamo” da due palchi diversi. Uno, molto in alto, quello della divina che canta il saltimbanco. L’altro molto più in basso è il palco di una figlia di operai che ha visto e vissuto il mondo degli emarginati, degli invisibili, dei disadattati di cui parla Enzo. Mia madre lavorava a catena in un sottosuolo di Firenze come Vincenzina, si viveva in una piccola stanza come gli innamorati di Io e te e avevamo la tratta da pagare come il protagonista di L’era tardi. So cosa significa avere la vita segnata fin dall’infanzia come il ragazzo de La fotografia, e quanto la musica mi abbia salvato da una fine che mi era stata assegnata. Allora con questa potenza-violenza, rabbia, se vogliamo, di cose vissute sulla pelle, ho pensato di cantare questo disco.



JC: Qualche aneddoto sul tuo su Il saltimbanco e la luna?


SP: Sì, ho un aneddoto tragicomico… quando abbiamo registrato il disco in una data al teatro Barrio’s pensavo che qualcosa in post produzione potesse essere rivisto, se ci fosse stato qualche problema, il che mi ha fatto suonare e cantare con una certa, relativa, tranquillità. Poi sono venuta a sapere da chi ha registrato e mixato, il maestro Barzan, per altro bravissimo, che non si poteva fare perché nel microfono della voce rientrava talmente il pianoforte che era impensabile qualsiasi ritocco. Ecco… così quello che sentite è tutto genuino, ma se io lo avessi saputo prima… panico totale.



JC: Parliamo di te, così, a bruciapelo chi è Susanna Parigi?


SP: Non riesco mai a essere disinvolta parlando di me. Mi sembra argomento poco interessante e in generale, anche nella scrittura, non amo questo “io” ebbro di unicità, questo confessionale continuo, il considerare sé stessi il centro non solo del mondo ma addirittura dell’universo che in molti casi, oggi porta a una forma subdola di autismo generale. Forse potrei citare i titoli dei miei Cd che meglio rendono l’idea di tante parole: sono “Susanna Parigi”, abbastanza “Scomposta”, non amo le “In differenze” mentre considero ricchezza le differenze, sono consapevole del “L’insulto delle parole” a cui assistiamo quotidianamente, uso un particolare linguaggio nei miei testi che potrebbe definirsi “La lingua segreta delle donne”, e in questo momento vivo insieme alla musica e a molte altre forme di arte e cultura in “Apnea” (titolo del mio ultimo CD di inediti).



JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?


SP: La voce di mia madre. Ho ricordi ancestrali del suo canto e la sua voce mi faceva piangere.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare una cantante?


SP: Più una persona costruisce la sua vita sulla sua vocazione, più vive serena, pare. Non importa il troppo danaro, non importa il potere, se non sei collegato a questo tuo dono, al dono che tutti potrebbero possedere. Il problema è riconoscerlo. Come si fa a scoprirlo, e dopo averlo capito a seguirlo? A volte occorre molto coraggio, occorre recidere dei rapporti, andare contro convenzioni e non sempre è facile. Io sono stata abbastanza fortunata perché fino da piccolissima, tre anni e mezzo, ho deciso da sola che volevo occuparmi di musica. Non ho avuto ostacoli da parte dei miei genitori e non ho avuto ripercussioni neanche scrivendo i testi, a volte un po’ estremi delle mie canzoni. Non so rispondere alla tua domanda. È stato un impulso indomabile e inspiegabile.



JC: E in particolare ti senti più interprete, cantautrice o jazz vocalist?


SP: Jazz vocalist direi proprio di no, anche perché le mie canzoni potrebbero definirsi musica d’autore e quindi necessitano di una vocalità diversa. Negli anni ho lavorato molto sulla mia voce, sperimentando anche; mai per raggiungere un virtuosismo fine a sé stesso ma perché avevo bisogno di certa padronanza tecnica per eseguire quello che richiedeva la mia scrittura. Direi che non riesco a scindere la mia voce dal lavoro di autrice. Per me sono una cosa sola e sono cresciuti insieme, credo. Paradossalmente, quando sono solo interprete,come nel caso di questo disco dove canto Jannacci, mi sento quasi più libera, libera dai luoghi comuni della mia mente, anche più lucida, perché come tutti sanno è difficile essere lucidi con i propri figli.



JC: Ma cos’è per te il jazz?


SP: È la “composizione-mentre”. Mi spiego meglio. L’improvvisazione è una composizione in corsa senza avere il tempo necessario per riflettere. Richiede potente concentrazione e una velocità che collega il pensiero alle dita o alla voce, sorprendenti. A pensare questo sembra di essere davanti a un miracolo.



JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica?


SP: Qualcuno potrebbe non essere d’accordo ma io la musica la vedo. È sempre stato così e non saprei dire se è giusto o sbagliato. Potrebbe essere frainteso. Si potrebbe pensare che io tolga qualcosa a quell’invisibilità tipica del suono. Io non credo sia così. Quello che vedo non sono paesaggi, tramonti e alberi, no, si tratta di movimenti impercettibili, di forme geometriche oniriche, di intenzioni, impulsi, pulsazioni e così via fino all’infinito delle gradualità labili di un sentimento. I concetti li lascerei ai testi e anche qui il discorso sarebbe troppo lungo da affrontare e annoierei tutti. Dico solo che la relazione stretta tra parole e musica cui dobbiamo riferirci quando scriviamo una canzone, per me sta diventando un po’ troppo stretta. Sentirei di aver bisogno di più libertà per le parole, e più libertà per la musica. Non so a cosa porterà tutto questo?



JC: Tra i dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionata?


SP: In differenze



JC: E tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?


SP: I tre di Nick Drake (le ragioni per cui si sceglie un disco vanno oltre qualsiasi spiegazione ragionevole).



JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?


SP: Il conservatorio mi ha insegnato il valore della disciplina e del lavoro. Ho avuto poi la fortuna di avere molti maestri, specie riguardo la scrittura dei testi, da Luperti, a Pasquale Panella a Kaballà con il quale collaboro da anni e altri. Tutti mi hanno insegnato qualcosa. Se posso farmi un unico complimento è che sono capace, credo, di apprendere e prendere il meglio dai miei collaboratori. Nella vita cerco di copiare tutte le persone che quotidianamente cercano di migliorare sé stesse. Mio padre mi ha insegnato il suo volto. Cosa vuol dire? Che dal volto si vede tutto. Non si può sbagliare. Le parole tradiscono, ma il volto di una persona no. Ho avuto poi il piacere di collaborare nei miei dischi con uomini e donne della cultura che ritengo esemplari anche non condividendo tutte le loro scelte come Corrado Augias, Lella Costa, Ottavia Piccolo, Pamela Villoresi e poi i libri, con i quali discuto, parlo, mi arrabbio…



JC: E le cantanti (italiane o straniere) che ti hanno maggiormente influenzato?


SP: Mia Martini, Betty Carter.



JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?


SP: Quando dal vivo sento che avviene in contatto con le persone. Non è definibile ed è dare e avere, è l’incontro.



JC: Come vedi la situazione della musica in Italia?


SP: Ho scritto una specie di manifesto nel libretto del mio recentissimo CD, Apnea, riguardo questo. Non c’è polemica alcuna ma semplicemente portare a conoscenza un tipo di situazione che ancora gli stessi musicisti non conoscono bene.



JC: E più in generale della cultura in Italia?


SP: La domanda precedente deriva da questa. La situazione dell’arte nel nostro Paese deriva dallo sterminio culturale. Facciamo un esempio. C’è un autore e c’è un fruitore, c’è l’opera d’arte e chi osserva l’opera d’arte. Distruggendo i mezzi culturali con cui le persone decodificano e possono fruire della bellezza, distruggi l’opera stessa, perché l’opera impossibilitata a essere percepita muore.



JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?


SP: Promuovere questi due dischi intanto e poi suonare ovunque ci siano persone disposte ad ascoltare.