Jazzin’ Around Baroque, il jazz “barocco” di Paola Quagliata

Foto: la copertina del disco










Jazzin’ Around Baroque, il jazz “barocco” di Paola Quagliata.


Jazzin’ Around Baroque è un progetto che prende in prestito alcune composizioni barocche dandole una nuova vita in forma di jazz. L’operazione è riuscita con successo. Il disco è piacevole, ispirato, suonato e arrangiato ottimamente. Paola Quagliata ne canta le arie affiancata da Davide Corini al pianoforte, Luca Garlaschelli al contrabbasso e Rudy Royston alla batteria. Un quartetto di pregio per un lavoro che merita molta attenzione.



Jazz Convention: Paola Quagliata, raccontaci di te, del tuo background musicale, del tuo essere una cantante classica “prestata” al jazz.


Paola Quagliata: In casa, grazie a mio padre, ci sono sempre stati tanti dischi di musica classica: Vivaldi, Sibelius, Verdi, Mozart. Pare avessi una certa predisposizione per la musica quindi cominciai a studiarla a 8 anni per poi iscrivermi in Conservatorio dedicandomi al pianoforte. A sedici anni feci l’audizione per passare alla classe di canto, più per caso che per reale convinzione anche se cantare mi piaceva moltissimo. Ma di lirica non sapevo nulla! La passione per la lirica crebbe col tempo: imparando a conoscerla, studiandola, frequentando i teatri, guardandola in tv. Ma poiché sono cresciuta ascoltando mio fratello maggiore suonare la chitarra e cantando sui dischi che collezionava, dai Beatles a Joni Mitchell, dai Manhattan Transfer agli Style Council, non mi sono mai chiusa alle suggestioni che il mondo musicale poteva offrirmi. Quindi Mozart, Rossini, Donizetti, i primi concorsi, una borsa di studio a Milano ma anche, contemporaneamente, Billie Holiday, Tom Waits, Fossati, Pino Daniele, i Doors, gli XTC, i Violent Femmes, Lou Reed, Ella, Bill Frisell… Il problema era che, essendo una ragazza insicura, con una tecnica vocale ancora fragile, una volta inseritami nel mondo del teatro come soprano, tutti questi “gioielli” li tenevo nascosti per il timore di essere giudicata. In quegli anni c’era ancora molta prevenzione verso chi cantava sia classica che leggera. Solo una volta che la mia tecnica si è consolidata non ho più temuto il giudizio. E, devo dire, anche lavorare nell’ambito della musica barocca mi ha incoraggiata ad attingere alla mia cultura musicale “alternativa”: una volta scoperto che Ottavio Dantone, tra i più noti cembalisti e direttori barocchi al mondo, aveva, in gioventù, una band rock, ho capito che la ricchezza sta anche nella differenziazione. La stessa cosa se mi pongo verso il Jazz. Per alcuni anni ho cercato di non attirare l’attenzione sul mio background classico, temendo l’etichetta, il giudizio dei jazzisti. In realtà la mia tecnica classica mi consente di affrontare alcune difficoltà con una certa disinvoltura. Ora mi piace se si parla di me come di una “cantante” e non di un “soprano”, perché la dicitura rimanda necessariamente alla lirica. Ma solo perché se uno non mi conosce e vuol venire ad ascoltarmi non resti deluso nel trovarsi una cantante che canta jazz con voce naturale e non da soprano lirico. Allo stesso modo preferisco non essere considerata una cantante classica “prestata” al jazz. Mi fa pensare a un incontro fugace, mentre io voglio un rapporto duraturo, perché il jazz fa parte della mia cultura musicale da sempre. Se proprio dovessi, parlerei di me come di una persona “prestata” alla musica. Ecco.



JC: Da dove nasce l’idea di questo progetto e quali rapporti ci sono, secondo te, tra la musica barocca e il jazz?


PQ: L’idea, in stato embrionale, è nata cantando Monteverdi con Ottavio Dantone. La primissima cosa che mi colpì fu la modernità delle tematiche, degli “affetti”, la tensione emotiva, molto più spiccata nell’opera barocca che non in quella romantica. Ricordo che durante la prima prova de Il Ritorno di Ulisse in Patria di Monteverdi, in una introduzione al cembalo di Dantone, mi sentii dire “Ma questo è Jazz…”. La scrittura ritmica, l’uso della sincope, alcune scelte armoniche, lo stretto legame tra la musica e il testo mi fecero sentire il “lamento” di Penelope molto affine ad alcune canzoni di Billie Holiday. Poi Dantone mi disse una frase che mi guidò sempre molto nell’affrontare la musica: «Il musicista barocco suona ciò che non è scritto». La ritrovai alcuni anni dopo molto simile in una citazione da Miles Davis: «Play what’s not there». Posso dire che Jazzin’ Around Baroque è nato in quel momento. Nella mia testa. Ma ci sono voluti ancora vari incontri ed esperienze musicali prima che decidessi di proporlo a dei jazzisti. Prima di tutto ho verificato che non ci fossero già progetti come questo. Sì, c’era Fresu, c’era una bravissima collega barocca in un cd che univa strumentisti barocchi e jazzisti, ma io volevo cantare con la voce non “impostata” e volevo solo musicisti jazz. Credo che in questo Jazzin’ Around Baroque si differenzi da altri prodotti che, comunque, seguono l’attuale interesse dei jazzisti verso il Classico e dei classici verso il Jazz.



JC: Com’è avvenuta la scelta dei compositori e i conseguenti brani? È stato un lavoro molto selettivo?


PQ: La ricerca è stata abbastanza lunga. Il materiale è vastissimo, dalla fine del ‘500 alla metà del ‘700, e non è stato facile individuare i brani barocchi che potessero accogliere una struttura jazz. Alcuni sono stati scartati una volta arrangiati e in altri mi “imbatto” quotidianamente, quindi provo ad immaginarmeli, provo ad arrangiarli, vediamo se “suonano”. Tendenzialmente si presta di più la musica più “antica”, quella che ha una struttura più “a danza”, forse perché, come, il Jazz anche il Barocco era musica da ballo. Ma anche Haendel e Vivaldi ci han dato parecchie soddisfazioni.



JC: C’era anche bisogno di arrangiare in chiave jazz le composizioni…


PQ: Appena ho deciso di creare Jazzin’ Around Baroque mi sono rivolta a Luca Garlaschelli, contrabbassista che mi aveva coinvolta l’anno precedente in un bel progetto sulla musica napoletana (Tammurriata Nera). È lui che ha cominciato a scrivere i primi arrangiamenti. L’apporto di Davide Corini per ultimare gli arrangiamenti per il disco è stato fondamentale e ora Rudy sta arrangiando un paio di brani per i nostri prossimi concerti. Io lavoro a un terzo.



JC: Il disco è in quartetto con Davide Corini, Luca Garlaschelli e Rudy Royston. Come vi siete incontrati? E la scelta di inserire la batteria in un contesto “barocco”?


PQ: Luca e Davide li ho conosciuti, come accennavo sopra, per la registrazione di Tammurriata Nera, la mia prima esperienza pubblica in chiave jazzistica, ma con Garlaschelli ci eravamo incrociati frequentando ambiti musicali paralleli. Il modo in cui conobbi Royston, invece, è buffo. Rudy suonò circa tre anni fa in trio con Bill Frisell al Piacenza Jazz Fest. Mentre ascoltavo esibirsi questo batterista straordinario, incantata come tutti dalle innumerevoli sfumature del suo stile, mi convincevo che Jazzin’ Around Baroque avrebbe avuto assolutamente bisogno delle percussioni (questo per evitare ogni alibi “cameristico” e anche perché il Jazz nasce da lì, dalla terra, dal suo ritmo). Avrei anche voluto, però, che queste percussioni venissero suonate così, “suonate” nel vero senso della parola. Ovvio che in quel momento non mi sfiorava nemmeno l’idea che Rudy avrebbe potuto entrare nel progetto. Solo per caso cominciammo a chiacchierare dopo il concerto. Mi chiese se avessi un progetto musicale e gli accennai di Jazzin’ Around Baroque. Avevo appena dato qualche brano a Garlaschelli per sapere cosa ne pensasse. Il fatto che nel suo disco appena uscito ci fosse un brano di Mozart, Ave Verum, fece capire a entrambi che il nostro incontro non era stato casuale. Ma ci volle un altro annetto, un viaggio a New York portando Jazzin’ Around Baroque all’Istituto Italiano di Cultura, la permanenza in città per studiare, la frequentazione con Rudy e altri meravigliosi jazzisti, prima che io avessi il coraggio di chiedergli di far parte del progetto e del disco. A volte ci capita di eseguire Jazzin’ Around Baroque in trio e sebbene ci si diverta comunque “sostituendo” la batteria con effetti del contrabbasso o del piano “quasi” preparato, io mi sento sempre “monca”. Ci sono alcuni brani di Henry Purcell in cui solo la batteria, con le sue vibrazioni basse, riesce ad esprimere un certo tipo di “affetto”, nel senso barocco del termine. Ad esempio il senso di incertezza, di oppressione, di affanno e di tormento che prova la regina Didone quando confida le sue ansie per il futuro all’amica Belinda… Ho chiesto a Rudy di cominciare da solo suonando come se dovesse rappresentare un temporale in arrivo e lui ha capito immediatamente. Rudy compone e crea partendo da delle immagini quindi per me, che amo la fotografia ed il cinema, è molto facile comunicare con lui. In più mi piace l’idea che la musica classica (barocca) venga rappresentata dalla “classica” formazione jazz in quartetto voce, pianoforte, contrabbasso, batteria. Anche per questo non riesco a concepire Jazzin’ Around Baroque senza batteria.



JC: Jazzin’ Around Baroque suonato dal vivo che reazioni suscita?


PQ: Ho concepito Jazzin’ Around Baroque con l’idea di un canto abbastanza “rispettoso” della scrittura originale e di un accompagnamento strumentale, invece, tipicamente jazzistico che quindi, lasci ampio spazio all’improvvisazione. Nel jazz mi sento di dover imparare ancora tanto. Portare in un ambito musicale classico (in cui mi muovo da tanti anni) un linguaggio che pratico da meno tempo (quello jazz) a volte mi intimorisce e la paura di inciampare “osando” un’improvvisazione su una melodia di Monteverdi è tanta. In questo senso le reazioni del pubblico mi confortano e danno coraggio dopo ogni esibizione sempre di più. E parlo sia degli ambiti classici di alcuni festivals che di quelli dei jazz clubs. Credo che il pubblico, sia in Italia che negli USA (dove cerco di introdurre i brani in italiano con una breve traduzione in modo che possano seguirci meglio) apprezzi di Jazzin’ Around Baroque la spontaneità, l’approccio umile che sta alla base dello studio e della ricerca e, soprattutto, il fatto che noi ci divertiamo a suonarlo assieme, senza voler dimostrare nulla. Quello che ho gradito di più a livello di complimenti sono stati gli apprezzamenti di chi conosceva questi brani nella loro forma originale e pur sentendoli in alcuni casi “stravolti” si è emozionato perché “così era come ascoltarli di nuovo per la prima volta e da un’altra angolatura”. Un’altra volta una signora appassionata di jazz, mi disse che il Lamento di Didone di Purcell l’aveva emozionata esattamente come quando da ragazza ascoltò per la prima volta My Funny Valentine. Io la penso come loro perché mi commuovo esattamente nello stesso modo sia che ascolti Bewitched sia che ascolti Giulio Caccini. Quando in una mia serata prettamente jazz inserisco un brano da Jazzin’ Around Baroque c’è sempre qualcuno che mi dice che quello è stato il brano che gli è piaciuto di più. Non ho ancora capito quale meccanismo scatti, ma credo che scatti solo nel momento in cui si resta a orecchie e cuore aperti.



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