Lo swing dopo lo swing

Foto: la copertina di President Plays: Lester Young with the Oscar Peterson Trio









Lo swing dopo lo swing


La Swing Era nel jazz ha, cronologicamente parlando, una rilevanza storica ben precisa che solitamente viene compresa entro i “limiti” socioculturali dell’inizio del New Deal e della fine della Seconda Guerra Mondiale, dunque nell’esatto decennio 1935-1945. Tuttavia lo swing, come fenomeno musicale, non si esaurisce con la vittoria degli Stati Uniti nel mondo intero e nemmeno, sul piano artistico, attraverso la crisi delle big band (e per contro il successo dei cantanti) o mediante l’avvento del bebop che rivoluziona tutto quanto. Benché molti solisti o vocalist transitino disinvoltamente da una forma classica a una moderna di inventività solistica (casi tipici Ella Fitzgerald oppure Stan Kenton e Woody Herman), lo swing permane radicato in molti maestri, spesso partiti anche prima degli anni Trenta, quindi legati ad esempio agli stili di Chicago, New Orleans, Kansas City: ne sono prova questi otto album – tranne uno inedito, tutti ristampati dal 1987 a oggi – a dimostrazione di una vitalità espressiva, anche in grado di far proprie le istanze più recenti; non a caso, infatti, molti di questi lavori vengono etichettati come mainstream, intesa quale corrente di “vecchio” swing che talvolta assorbe positivamente “nuovi” linguaggi come il bebop, il cool, persino l’hard bop, riuscendo a farli propri e rimanendo sostanzialmente fedeli a se stessi.



Lester Young, The President Plays (Verve) 1952

Durante gli anni Cinquanta, per sfruttare le virtù (e i vantaggi) del disco a 33 giri (stereofonia e lunga durata), l’etichetta Verve inaugura di fatto la tendenza mainstream – in parallelo con quanto espresso dal vivo negli spettacoli del Jazz At The Philarmonic – con una sfilza di bellissimi album, che hanno quale denominatore comune la presenza di una favolosa sezione ritmica, che altri non è che l’Oscar Peterson Trio (come annunciato in copertina) in realtà quartetto con Barney Kessel, Ray Brown, Shelly Manne. Il gruppo, in quegli anni, accompagna jazzmen anche molto eterogenei, raggiungendo forse il vertice qualitativo con il tenorista Lester Young, il cui imploso virtuosismo meglio s’accorda alla dinamicità scaturita nel mescolare bebop, cool, swing. I brani del CD sono tredici, di cui quattro mai usciti nell’album originale, tra l’altro inciso il 28 novembre a New York City in un’unica seduta, come si conviene al jazz (dei grandi Maestri).



Roy Eldridge, Little Jazz (Verve) 1954

Questo album, registrato in una sola session il 13 settembre 1954, è il terzo quattro che il trombettista, all’epoca quarantatrenne, incide per l’indipendente Clef, in compagnia di grandi sezioni ritmiche: simile al precedente Dae’s Wail come formazione, l’LP sciorina otto standard celeberrimi dove Little Jazz – questo il sopranome dello stesso jazzista, che qui lo scegli anche come titolo – di fatto canonizza il mainstream, improvvisando o porgendo i temi con uno stile che conferma il precedente swing (da cui egli nasce artisticamente circa vent’anni prima), accogliendo però un accompagnamento assai più moderno grazie ai vari Oscar Peterson, Herb Ellis, Ray Brown, Buddy Rich di estrazione bebop o cool. Lui, Roy Eldridge, solisticamente, anche in quest’album si conferma punto di raccordo fra la lezione hot di Louis Armstrong e quella bop di Dizzy Gillespie.



Art Tatum, The Genius Of Keyboard (Joker) 1954-1956

Il “genio della tastiera” è qui immortalato in una raccolta di quindici anni, realizzati tra il 1954 e il 1956 (dunque nell’ultimissimo periodo di vita dell’artista); l’antologia (1988) inserita in una collana economica presenta i brani in ordine sparso, elencando fortunatamente giorno, mese,anno di registrazione e soprattutto le formazioni: si va dal piano solo di Willow Weep For Me e I Cover The Waterfront all’unico quintetto di September Song e Somebody Love Me con Harry Edison, Lionel Hampton, Barney Kessel, Red Callender, Buddy Rich, passando per il congenialissimo piano jazz trio in Blue Lou e Love For Sale (con Callender e Jo Jones) o il classico quartetto con un fiato che via via è rappresentato da Roy Eldridge, Buddy De Franco, Ben Webster. Curiosi (e riusciti) anche gli abbinamenti negli altri due trii fra pianoforte-alto-batteria (con Benny Carter e Louis Bellson) e vibrafono e batteria (Hampton e Rich). Tatum suona ancora bene in uno stile che sintetizza a sua volta tutto il jazz precedente, soprattutto stride e swing.



Johnny Hodges And The Ellington Men, The Big Sound (Poll Winners Records) 1956-1957

Questa ristampa, in particolare, fa emergere il “grande suono” dello swing passato e dell’arte “ducale”, perché il disco degli “uomini ellingtoniani” a cura del grande sax alto – che di Duke Ellington resta tra i maggiori solisti in assoluto – spicca per brillantezza in doveroso omaggio al proprio Maestro. Il “nuovo” leader, che al pianoforte vuole ovviamente il braccio destro, nonché alter ego ellingtoniano, l’arrangiatore, Billy Strayhorn, risulta in compagnia di una small combo formata appunto da tutti “fedelissimi” come Ray Nance, Lawrence Brown, Jimmy Hamilton, Harry Carney, Jimmy Woode, Sam Woodyard, che raccoglie tre LP incisi tra il 1956 e il 1957 in tutta souplesse, per un totale di sedici brani dove Johnny Hodges si toglie lo sfizio di prendersi molti più assolo di quanto non fatto in precedenza con la big band del “datore di lavoro”.



Fletcher Henderson All Stars, The Big Reunion (Fresh Sound Records) 1958

Il grande arrangiatore nonché padre putativo delle big band e indirettamente della swing era è morto già da sei anni e uno dei suoi tanti allievi – il trombettista Rex Stewart, già alla corte di Duke Ellington – decide, sul finire dei Fifties, di radunare di gruppo appunto stellare per rendere omaggio al genio di Fletcher Henderson; si tratta di un tributo sui generis che comprende un solo brano dell’omaggiato (Wrappin’It Up) e addirittura un pezzo bebop (la celeberrima ballad monkiana ‘Round Midnight), mentre per fortuna il resto si rifà all’hot e allo swing originari, benché qui trattati con un nuovo gusto mainstream e un deciso piglio modernizzante anche a esaltare la registrazione in hi-fi, come suona persino nei titoli di copertina. Del gruppone di 17 elementi da segnalare la presenza (e gli assolo) di Coleman Hawkins, Ben Webster, Buster Bailey, Dickie Wells e l’inizio e l’epilogo strepitosi con i due stomp Sugar Foot Stomp (Oliver-Armstrong) e King Porter Stomp (Morton)



Coleman Hawkins, The High And Mighty Haws (Decca) 1959

Si tratta, per Bean, dell’unica registrazione per la celebre label inglese, in mezzo a una pletora di tanti altri bei dischi che il tenorsassofonista incide nella seconda metà degli anni Cinquanta, quando è ormai ritenuto una leggenda vivente, ma ancora in grado di stupire pubblico e critica. In effetti il sassofonismo hawkinsiano, cresciuto nelle prime orchestre di Fletcher Henderson, benché inquadrabile stilisticamente entro lo swing caldo, melodico, fascinoso, riesce ad adattarsi alle nuove tendenze: non a caso l’altro protagonista dell’album è il pianista Hank Jones, già fondamentale nei bebop combo di Charlie Parker. Le sei lunghe improvvisazioni in quintetto – effettuate tra il 18 e 19 febbraio 1958 a New York – sono da incorniciare nella galleria dei capolavori mainstream aggiornatissimi.



Earl Hines, Hine’s Tune (INA Institut National de l’Audiovisuel) 1965

Benché difettose sotto il profilo acustico – si tratta probabilmente di registrazioni occasionali – queste session inedite – dal vivo alla Salle Pleyel il 3 novembre, più gli ultimi sette in agosto alla ORTF – risultano importantissime per quanto concerne l’aspetto storico: dai primi anni Sessanta Fatha sta vivendo una seconda giovinezza artistica come pianista in solo, in trio o con solisti ospiti. Questi 20 brani ‘parigini’ lo esaltano anche in compagnia di grandi jazzmen, su un vivace repertorio di standard collaudatissimi, che vengono affrontati con gusto swing e mainstream, fino a celebrare di pianoforte “trumpet style” messo a punto da lui stesso, quarant’anni prima, con gli Hot Five di Louis Armstrong, ma che resta sempre originale e inimitabile (e purtroppo mai più seguito da nessun pianista). Chicca finale: i tre brani conclusivi sono notissime canzoni francesi, che Earl Hines si diverte a rielaborare da par suo.



Count Basie & His Orchestra, Basie’s Beatle Bag (Verve) 1966

A metà degli anni Sessanta anche i grandi del jazz afroamericano rimangono spiazzati dal “fenomeno Beatles”: chi reagisce positivamente sono proprio alcuni big band leader che arrangiano e interpretano le originali canzonette pop e rock in un inusitata veste mainstream: c’è chi come Duke Ellington si limita a qualche canzoni, chi invece – in questo caso il “Conte” – pubblicare addirittura due album interamente dedicati al suono giovanile dei Fab Fuori: il primo è anche il più bello e originale, senza nulla togliere al Beatles On Basie (1969) di tre anni successivo. La cosa buffa, curiosa, piacevole è che a sentire questo LP i Beatles restano tali (ossia non vengono stravolti), mentre al contempo, da Help! a She Loves You, da Michelle a Yesterday, è avvertibile (e apprezzabile) molto sound basiano dal pianismo martellante agli impasti fiatistici, dal ritmo en souplesse agli scopi energici di tutti i fiati: un esempio insomma di come lo swing possa essere rinverdito trent’anni dopo passando da un repertorio totalmente contemporaneo.