Roberto Bonati, Nor sea, nor Land, nor Salty Waves

Foto: Miriana Lanfranco (per gentile concessione ParmaJazz Frontiere)










Roberto Bonati, Nor sea, nor Land, nor Salty Waves

Parma, Libreria Feltrinelli – 28.3.2017


La recensione è, infatti, oramai un genere di scrittura molto problematico per chi lo pratica. Il numero impressionante dei dischi in uscita, la moltiplicazione e la “contaminazione” dei vari linguaggi rendono, in questi tempi, il lavoro del recensore assai arduo. Anche le interviste non sono sempre adeguate. Spesso, tendono a diventare una sorta di manifesto programmatico di un artista (a volte anche dell’intervistatore…) e mancano di freschezza. Le presentazioni dei dischi, condotte da direttamente dai musicisti, magari con l’aiuto di un addetto ai lavori possono essere una valida alternativa. In questo tipo di eventi il musicista appare spesso più rilassato, più diretto. Riesce a comunicare meglio, senza paludamenti teorici, le sue intenzioni, le sue urgenze, le sue incertezze.


La presentazione dell’ultimo disco di Roberto Bonati è stata una buona riprova di quanto sopra. A snodare il filo conduttore dell’evento è stato Alessandro Rigolli, collaboratore del Giornale della Musica e della Gazzetta di Parma. Il disco – Nor sea, nor salty waves, a nordic story, pubblicato da Parma Frontiere – vede il contrabbassista dirigere sue composizioni alla guida di un’orchestra norvegese, la Bjergsted Jazz Ensemble dell’Università di Stavanger.


Bonati ha innanzitutto raccontato in poche parole il suo legame oramai consolidato con la Norvegia; le sue partecipazioni ad alcuni festival del paese boreale, la conoscenza e l’amicizia con altri musicisti, in particolar modo Tor Yttredal, gli inviti e le ospitalità ricevute come docente, fino ad arrivare il progetto in questione che gli è stato commissionato nel 2015 proprio dal dipartimento di Musica e Danza dell’Università di Stavanger. Un omaggio alla Norvegia e alla sua radicatissima tradizione jazz. Un atto d’amore e anche di riconoscenza. L’Ambasciata di Norvegia in Italia è, infatti, uno dei partner principali di ParmaJazz Frontiere, la rassegna ideata e diretta proprio da Bonati.


Per questo omaggio Bonati è partito da suggestioni letterarie, nate dalla lettura di antichi poemi della mitologia norvegese. Poemi scritti in norreno, che si può definire, in senso lato, la lingua dei vichinghi. Poemi che raccontano l’origine del mondo, quando il creato era una voragine immensa senza mare, né terra, né onde salate. Bonati ha parlato a lungo e con evidente entusiasmo di questi miti che raccontano di una visione sincretistica della realtà, una visione propria di un mondo che non era più del tutto pagano ma nemmeno completamente cristiano. D’altronde, nella sua lunga ricerca artistica, l’ispirazione letteraria è sempre stata un elemento centrale. Dischi come …poi nella serena luce (2001), ispirato da nove poesie di Attilio Bertolucci, A Silvery Silence (2006), rilettura musicale di Moby Dick, o Un sospeso silenzio (2007), dedicato a Pier Paolo Pasolini, testimoniano quest’amore infinito per la parola scritta.


Dopo l’ascolto del primo brano, The Profecy of the Volva, una melodia profondamente evocativa della grande solitudine primordiale, Alessandro Rigolli ha chiesto a Bonati quali fonti musicali avesse utilizzato per dar voce alle suggestioni e alle lontananze del testo.


«Non ricordo – ha scherzato il compositore – proprio non lo ricordo. Ovviamente è una battuta che tuttavia nasconde una caratteristica ineludibile di un atto creativo. Anche quando si lavora a un progetto strutturato, molto scritto, come questo, non si riesce mai a incanalare completamente la propria creatività nell’ambito del disegno iniziale. Alla fine si scoprono, di solito a lavoro finito, anche a distanza di tempo, passaggi, sequenze, nessi che non fanno parte del piano originale ma che sono assolutamente parte integrante del tessuto del lavoro, sono elementi, storie che nascono nel momento stesso del comporre. Come quando in un romanzo si incontra un nuovo personaggio che ci racconta la sua storia e così la strada che si percorre non è sempre nelle nostre mani, si “fa” in qualche modo “da sola”. Per questo è difficile rispondere in maniera definitiva a una domanda come la tua. Forse questo sentire nasce dalla mia formazione d’improvvisatore. Quando scrivo entro nello stesso stato d’animo di concentrazione agitata che provo sul palco, quando suono. Sono avvolto dalla stessa energia. Quindi, a volte, le idee che si leggono sulla pagina finale sono frutto di improvvisazioni libere, di momenti particolari che sono fuori dagli schemi immaginati. C’è una dimensione performativa della scrittura per me, felicemente inevitabile e necessaria. D’altronde, cosa è l’improvvisazione se non composizione istantanea? Giancarlo Schiaffini, che ha suonato con Luigi Nono, mi ha sempre raccontato che nella “scoperta” della musica di quest’ultimo c’era meno scrittura e più estemporaneità di quanto normalmente si è portati a credere.»


Il conduttore ha concordato con quest’ultima parte dell’intervento di Bonati. D’altronde, ha sostenuto, anche la sperimentazione elettronica più radicale di cui era intrisa tanta musica contemporanea non era del tutto strutturata e immutabile. La tecnologia era ancora agli esordi e un quantum di precarietà progettuale e di estemporaneità era quindi assolutamente normale. Fatta questa interessante annotazione, Rigolli ha chiesto al suo interlocutore se e quanto si potesse misurare la miscela d’improvvisazione di scrittura di cui è composta questa Nordic story anche alla luce delle recenti esperienze del compositore sui territori perigliosi della conduction, della direzione di improvvisazioni con organici orchestrali.


«Direi che ho messo dei paletti ben piantati, che ho blindato la pagina. Certo, nel disco ci sono dei momenti di esecuzione totalmente libera, delle vere e proprie sequenze di conduction, ma non sono esse a definire il mio lavoro. Certo, scrivere per un’orchestra jazz è pratica diversa da quella di progettare musica per chi è più abituato a lavorare sullo scritto. Dentro cornici ben definite e solide ho lasciato dei vuoti che permettessero ai musicisti di creare situazioni impreviste. Di disegnare traiettorie rapide, di creare degli squarci momentanei sulla tela. D’altronde, l’improvvisazione è anche arte dell’errore, di quell’errore che può trasformarsi in opportunità creativa, il giustificare il prima con quello che viene dopo. Ho tenuto conto della sensibilità dei musicisti che avevo di fronte, ma alla fine è la dimensione compositiva che prevale nella narrazione musicale del disco. Mi chiedi quali siano gli autori che più hanno determinato il mio modo di scrivere. Sono moltissimi ma la loro influenza non è certo facile misurare i sedimenti che hanno lasciato nella mia musica, anche alla luce di quanto detto prima sulla scrittura “involontaria”. Nel mio modo di comporre è sempre presente una cantabilità di base, una frase, uno spunto melodico, magari semplice e immediato, che può servire da orientamento nella narrazione. Intorno a questo mi piace costruire paesaggi sempre cangianti e complessi. Amo molto Stravinsky e Bartòk e Ellington e Mingus e molti altri.»


Rigolli ha spesso posto in risalto, nei suoi interventi, l’approccio trasversale di Bonati alla composizione e alla musica in generale. Collaboratore e “allievo” di quel Giorgio Gaslini che ha sempre propugnato la necessità di conoscere e di praticare i più vari linguaggi musicali, della loro fusione in una sintesi superiore. Un approccio che il musicista ha, a sua volta, rivendicato.


«Non è l’inquadramento in categorie più o meno astratte, più o meno storiche, a stabilire la qualità e l’onestà di una musica: ci sono picchi artistici e autentiche bassezze nella musica “classica”, come nel jazz o nella pop music – ha affermato. Nessuno ha in mano verità rivelate o formule definitive.»


Quest’apertura mentale, quest’approccio libero, si sono sentiti in tutti gli ascolti proposti nel corso della serata. Il disco “norvegese” di Bonati viaggia, oltre che nelle terre dei miti boreali, anche nei più vari paesaggi della musica. È un percorso rigoroso, però, in cui i rimandi non sono mere citazioni. La scrittura di Bonati non scade mai nel collage.


Alla fine qualcuno, dal pubblico, ha chiesto al compositore quali sono i riferimenti più strettamente jazzistici di questo lavoro, quali fossero le big band di cui si sente tributario. Gli ha poi ricordato come in qualche intervista abbia rifiutato l’etichetta di jazzista.


«Per esempio, in questo ultimo brano del cd che abbiamo ascoltato (Eagle) la scrittura di Charlie Haden e Carla Bley per la Liberation Orchestra è anche evidente riferimento e ci sono, come è giusto che sia, tante cose “rubate” in questo mio viaggio boreale. Per quanto riguarda il mio essere uomo di jazz la citazione di quell’intervista è esatta, anche se va approfondita. Se parliamo semplicemente di stile, io non mi posso certo definire jazzista, né sinceramente mi interessa, ogni volta che mettiamo una etichetta tagliamo fuori qualcosa. E Mingus stesso amava definirsi non un musicista jazz ma un musicista folk. Io non suono jazz “in stile” ma credo che una buona parte del mio pensiero musicale derivi dalle profondità del jazz. E di quest’arte straordinaria che in poco più di cent’anni ha già attraversato un percorso di mutamenti e di ridefinizione che la musica “colta” ha percorso in secoli e secoli, vorrei mantenere lo spirito d’apertura. Essere musicisti di jazz vuol dire stare al centro di un incrocio di strade, vuol dire avere occhi e cuore aperti. Il jazz è musica meticcia, aperta a tutte le influenze, non ha paura di contaminarsi. È una palestra per le menti libere.»


Questa, in larga sintesi, la cronaca della serata parmigiana. Il recensore potrebbe scrivere che ha trovato anche molto di Gil Evans nel dipanarsi del racconto, forse anche echi del sinfonismo russo di fine Ottocento – addirittura qualche traccia di Modest Mussorgsky… Ma forse, quando un’opera d’arte inizia il suo viaggio fra il pubblico, diventa anche in qualche maniera di proprietà di chi la ascolta. Anche l’ascolto, forse, è un atto libero, come quello della composizione.


Stare per una volta fra il pubblico, come si vede, permette di riflettere più liberamente di quanto non lo consentano le posizioni di recensore o intervistatore. L’unica condizione è che la musica ascolta sia buona e appassionante. Questa storia boreale lo è davvero.