Art Tatum, Tea for Two: una trascrizione di Matteo Bisbano

Foto: Fabio Ciminiera










Art Tatum, Tea for Two: una trascrizione di Matteo Bisbano


Art Tatum rappresenta un punto di riferimento fondamentale per la storia del pianoforte nel jazz e un capitolo imprescindibile anche al di fuori dei confini della musica afro americana. La sua capacità di sintetizzare linguaggi e storie musicali lo rende, senza troppi giri di parole, uno dei più grandi. Il suo virtuosismo è sempre legato al senso e alle emozioni da offrire all’ascoltatore, le sue registrazioni parlano in modo diretto ed immediato anche a chi si accosta oggi alle interpretazioni – spesso definitive, sempre memorabili – che è stato capace di dare ad ogni brano.


Entrare a fondo nelle esecuzioni proposte da Art Tatum significa decodificare un pensiero musicale organico ed è un mezzo per portare alla luce le connessioni tra i vari passaggi e le motivazioni radicate in ciascuna nota. Il giovane pianista Matteo Bisbano si è dedicato alla trascrizione della versione di Tea for Two che si trova nel monumentale cofanetto della Pablo Records, gli otto dischi prodotti da Norman Granz. Una vera e propria “indagine” musicale, condotta attraverso l’unione del background classico e dell’approccio jazzistico, per mettere a fuoco i tantissimi spunti presenti nell’esecuzione di Tatum, tre minuti e mezzo per rivoltare in maniera straordinaria quella che, in partenza, è poco più che una gradevole canzoncina. «La pulizia delle note, l’uso di alcuni voicings e, per lo più, l’indipendenza che usa in certi passaggi tra mano destra e sinistra mostrano la sua grandissima maestria.» Un pianista unico, per tantissimi elementi. «Tatum è stato il primo, o comunque uno dei primi, ad avere adottato certe soluzioni tecniche sullo strumento nei suoi piano solo, certi concetti armonici e i fraseggi usati lo rendono estremamente innovativo.»


Il background classico di Bisbano lo ha aiutato e gli ha tolto anche certi timori reverenziali. «Tra tutti gli aspetti, il più difficile da focalizzare è sicuramente la “presenza” del suono e questo è senz’altro molto difficile rispetto a quanto accade confrontandosi con un pianista classico. Senza voler assolutamente sminuire la figura di Tatum dicendo questo, ho incontrato brani molto più complessi e ho visto gente anche tecnicamente più preparata con la sua stessa grandezza delle mani. Mi spiego con un esempio: un brano come La Campanella, nella versione di Lizst per pianoforte, rappresenta a mio avviso e secondo la mia esperienza qualcosa di tecnicamente più difficile. Durante i miei studi a Teramo, ho incontrato un pianista in grado di prendere un’undicesima sul piano senza apparenti difficoltà e tecnicamente era bravissimo, ricordo in particolare come suonava Rachmaninov.» Tutto si sposta sul percorso attraverso il quale si ottengono i risultati, sull’intelligenza pianistica di Tatum come interprete e “manipolatore” di vocabolari musicali. «La vera grandezza di Tatum era nel “come” suonava determinate note. Seppur tecnicamente favoloso, il suo modo di prendere determinati virtuosismi dal mondo classico e inserirli nei suoi arrangiamenti risulta senza forzature esterne. La mia primissima difficoltà nello studio di Tatum è stata proprio quella di ottenere lo stesso risultato… se ci sono riuscito o meno, lo dirà il pubblico. Ancora al giorno d’oggi sentiamo musicisti forzare alcune situazioni: alle volte, interi passaggi vengono inseriti come in un “copia ed incolla” senza capo né coda. Sicuramente, in molti casi, questo è voluto dall’esecutore per creare un impatto forte tra i due stili, altre volte questo sistema è applicato in maniera troppo artificiale e provoca seri dubbi di omogeneità nell’orecchio dell’ascoltatore. Come è ovvio, questo è il mio punto di vista e non la legge assoluta…»


La trascrizione come strumento per lo studio e la comprensione dei maestri resta una strada sempre importante anche se va sempre inquadrata secondo la prospettiva dello studio. «Bisogna vederle, suonarle, leggerle e, soprattutto, farne di proprie. La tecnologia oggi ci aiuta molto in questo esercizio. I Grandi del jazz, al loro tempo, si sono formati sui passi dei musicisti che li avevano preceduti, perché non dovremmo farlo noi? Certo, non si impara a suonare jazz con una trascrizione ma, se è fatta bene ovviamente, può aiutare a capire cosa faceva il musicista di fronte ai singoli passaggi e come risolveva le sue difficoltà.».


Naturalmente, quando si decide di affrontare la trascrizione di uno standard, si entra in contatto diretto con la storia di quel brano e con le versioni che i jazzisti ne hanno dato negli anni. «Le trascrizioni possono essere, a mio parere, un ottimo metodo per imparare ad interpretare gli standard secondo un certo stile. È molto importante, però, avere bene in mente il fraseggio nelle orecchie di quello che si legge: ci sono cose più profonde della scrittura stessa, elementi che non possono essere messi su carta come, ad esempio, il tipo di suono da ottenere oppure il “tiro”. Trovare scritto o scrivere su una partitura “swing” o “lay back” rimane un qualcosa privo di significato, se non si ha bene in testa cosa significhi in realtà. In poche parole: la trascrizione andrebbe abbinata in maniera maniacale all’ascolto.»


Tutto il lavoro fatto da Matteo Bisbano si ritrova in un video pubblicato in rete (e visibile al seguente link) dove la partitura trascritta e l’esecuzione da parte del giovane pianista si ritrovano fianco a fianco. Se si vuole può essere la chiusura del cerchio tra passato e presente, un nesso forte tra “artigianato musicale” e tecnologia, una strada per formarsi gli attrezzi del mestiere, unendo strumenti diversi tra loro con la necessaria applicazione dello studio e dell’esercizio. «Beh, in un modo o nell’altro tutti i jazzisti, sia nel passato sia al giorno d’oggi, si sono sempre dovuti adeguare ai mezzi disponibili per aver accesso a determinate informazioni. Se una volta potevano solo sognare di rallentare una traccia audio senza distorcerla o alterare le frequenze, oggi invece è semplicissimo. Ai tempi di Tatum, se uno non trovava chi gli insegnava direttamente determinati “segreti” erano dolori e gli andava ancora peggio se non possedeva l’intuito tipico del genio o un talento in grado di risolvere le situazioni più intricate. Questi ultimi due fattori aiutano sempre ad andare avanti rispetto a chi non li possiede ma, come ben si sa, vanno coltivati o non porteranno mai frutti.»



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