Benedetti da Parker, un romanzo sul jazz

Foto: la copertina del libro









Benedetti da Parker, un romanzo sul jazz

Cairo editore. 2017

Il titolo anzitutto: un titolo che suona volutamente ambiguo o meglio polivalente. “Benedetti” potrebbe essere l’aggettivo naturale riferito a tutti gli essere umani (musicisti in primis) che sono stati per così dire benedetti dal Charlie Parker, il genio sassofonista afroamericano, che ha cambiato per sempre la storia del jazz e della musica contemporanea: la sua “benedizione” può rivelarsi l’illuminazione è quasi buddista che tanti discepoli recepiscono dall’ascolto dei suoi dischi o i pochi fortunati dove avevo visto suonare dal vivo.


Ma Benedetti risulta anche il cognome del protagonista di questo romanzo biografico (o biografia romanzata) perché un Dean Benedetti (1922-1957) è esistito davvero: italoamericano, seguace al sax tenore appunto di Charlie Parker, al punto da meritarsi in questo libro un titolo dal nome storico, come usavano nel Medioevo e nel Rinascimento (ad esempio Leonardo Da Vinci), dove però il luogo di provenienza viene sostituito da un Genius Loci e dal punto di riferimento assoluto a livello artistico ed esistenziale.


Benedetti da Parker indica, altresì, un complemento di moto da luogo, nel senso che Dino Alipio Benedetti, una volta conosciuto Charlie Yardbird Parker, gli va incontro, lo segue passo passo, gli vuole assomigliare fino a morire giovane per l’eroina, più o meno la stessa età. L’unica enorme differenza tra i due è che Dean non aveva il talento di Bird o forse non ha voluto nemmeno cercarselo, preso a drogarsi com’era.


Partito dallo swing, Benedetti scopre il bebop grazie a Parker, ma non trova la capacità o la volontà di emularne le imprese: anzi, a un certo punto onde fuggire a una condanna sicura, evade dagli Stati Uniti e torna dai genitori in Italia, a Torre del Lago (paese natio dal compositore Giacomo Puccini). Qui conduce di fatto una vita da bar, cercando però di trasmettere l’amore e l’entusiasmo per la cultura oggettistica e giovani avventori. E l’impresa in parte riesce, fermandosi soltanto con la morte fisica del protagonista, che, oltre questo bel racconto, frammisto pure di analisi psicologica, resterà negli annali del jazz solo per aver registrato una quantità incredibile di assolo parkeriani con il proprio magnetofono, ma usando un accorgimento controproducente: ogni brano viene conservata appunto solo la parte solistica, privando l’ascoltatore odierno dell’intera fruizione.


Ma su quest’ultimo punto, benevolmente, Alessandro Agostinelli va oltre preferendo – anche giustamente – concentrarsi sulla storia di un’ossessione da “negro bianco”, con una prosa spigliata memore del positivo effetto del ritmo sincopato.