Francesco Gazzara. Storia dell’acid jazz

Foto: la copertina del libro









Francesco Gazzara. Storia dell’acid jazz

Meridiano Zero. 2017

L’acid jazz, benché ormai “vecchio” di circa trent’anni, resta ancora tra i fenomeni nuovi, originali, positivi nella storia della musica afroamericana e delle culture giovanili. Tutto questo all’epoca viene descritto, quasi a caldo, da un libro edito nel 1997 da Castelvecchi, a commentare le vicende di un fenomeno, anche extra-sonoro, lungo un decennio di creatività, sorpresa, innovazione, grazie a una pletora di gruppi e solisti in particolare britannici, non senza dimenticare il contributo di artisti statunitensi, giapponesi, scandinavi e anche italiani.


Ora “quel” testo – riccamente illustrato dalle foto dei dischi e dei protagonisti – torna in libreria riveduto e “aggiornato” dall’autore stesso: e il volume guadagna addirittura in freschezza e credibilità, perché dimostra come un genere danzereccio (nato insomma tra le esperienze clubbing londinesi) proponga spesso valide alternative ai balli da discoteca, monotoni e ripetitivi, agganciandosi al recupero di tante sonorità black, non solo jazzistiche; in effetti il punto di riferimento per l’acid jazz, con il senno di poi, appare più il soul che l’hard bop, senza nulla togliere sia dell’uno che dell’altro, come ammesso dagli stessi musicisti in merito alla consapevolezza di influenze e contaminazioni.


Ma, oltre i due pilastri soul e hard bop, a “forgiare” il suono acido intervengono ulteriori stili degli anni ’60 e ’70, dal funk al r’n’b, dal soul-jazz alla psichedelica, dalla bossa nova alla lounge music. Come racconta Gazzara si tratta comunque di un movimento eterogeneo, che può vantare ispiratori illustri (Jimmy Smith, Brian Auger, Eumir Deodato, Gil Scott-Heron, gli Style Council) e che ancora oggi riesce a farsi apprezzare riascoltando ad esempio i dischi sempre attuali di Jamiroquai, Brand New Heavies, Incognito, Galliano, James Taylor Quartet in Inghilterra, US3, Ronny Jordan, Guru, Jazzmatazz negli Stati Uniti, Pizzicato Five in Giappone, Rebecka Torqvist in Svezia, Nicola Conte in Italia.


L’unico neo di un libro utilissimo è proprio l’accennato aggiornamento, poiché un solo capitolo di poche pagine sull’ultimo ventennio non rende l’idea degli sviluppi dell’acid jazz che di fatto si dilegua in mille rivoli, dal nu jazz all’electro-swing, facendo arricciare il naso ai puristi, ma forse, in fondo, perpetuando l’idea originaria del jazz primigenio quale musica da ballo: un’idea che, fra l’altro, è sempre viva, poiché persino il difficile bebop viene ballato nelle caves parigine del dopoguerra o addirittura il free, nella fattispecie con l’Arkestra di Sun Ra, accoglie numerosi danzatori o nei solo di John Surman s’incrocia con il teatro-danza sperimentale. L’acid jazz e gli ulteriori derivati, invece, vengono fruiti in discoteca, probabilmente l’esatto pendant delle sordide balere di New Orleans di fine Ottocento, dove appunto nasce il jazz…