Art Ensemble Of Chicago @ Reggio Emilia

Foto:










Art Ensemble Of Chicago @ Reggio Emilia

Reggio Emilia, Teatro Ariosto – 21.10.2017

Roscoe Mitchell: sassofoni

Hugh Ragin: tromba

Junius Paul: contrabbasso

Don Moye: batteria, percussioni

Dodù Kouate: percussioni africane

Un osservatore che guardasse la storia della musica da qualche punto di un’altra dimensione noterebbe facilmente come lo spazio tempo della musica afroamericana sia particolarmente compresso. Fra il disco della ODJB del 1917, considerato il primo nella storia del jazz, e la prima incisione dell’Art Ensemble (risalente al1969) corrono solo cinquantadue anni. Gli ultimi concerti del gruppo di Chicago, nella formazione originale, risalgono ai primi anni 90, e l’AEOC è una delle formazioni più longeve della storia del jazz. L’osservatore immaginario noterebbe facilmente come tutte le altre musiche si sono evolute con lentezza infinitamente maggiore. La “classica” occidentale si è sviluppata lungo quasi due millenni, quelle di origine folcloristica non hanno subito, nel corso lungo del tempo, grandissime trasformazioni. Citando il titolo di un celebre disco dell’Ensemble, il passaggio “from Ancient to the Future “è durato, invece, più o meno un secolo. E già alla fine degli anni ’70 in ogni caso, la spinta propulsiva sembrava essersi attenuata.


All’inizio della serata di Reggio Emilia l’ascoltatore non giovanissimo, che aveva sentito magari gli AEOC in qualche tumultuoso concerto degli anni ’70, quando i cinque erano improvvidamente considerati come cantori del proletariato dei ghetti neri statunitensi, non poteva sottrarsi a questa riflessione.


Allora gli AEOC venivano inquadrati nell’avanguardia. Il termine stesso è oggi molto desueto.


Forse, inconsciamente quell’ascoltatore era lì per celebrare un rito, per pagare un tributo alla propria memoria. All’ingresso in teatro era rimasto sorpreso dall’insolito affollamento (c’erano persone, lo sentiva dal modo di parlare, arrivati anche da fuori Emilia) e dalla presenza di tanti giovani.


S’immaginava, insomma, di assistere all’ennesima operazione nostalgia, a una reunion un po’ fuori dal tempo. Del quintetto glorioso, in fin dei conti, sarebbero saliti sul palco solo Roscoe Mitchell e Don Moye.


Si sbagliava.


La serata è partita subito bene con una lunga improvvisazione collettiva, meditabonda e di ricca di colori africani. Sul palco insieme ai due anziani guerrieri (non è una frase fatta) citati c’erano anche il trombettista Hugh Ragin, il contrabbassista Junius Paul e, a sorpresa, il percussionista senegalese (ma oramai italianizzato) Dudù Kouate. Puro suono, nella prima parte de pezzo; con i fiati a evocare delle voci e degli spiriti di una foresta ancestrale. Chiudendo gli occhi e ascoltando quelle sonorità lussureggianti e aspre, fuori dal tempo, si poteva immaginare che il gruppo usasse una vasta strumentazione elettronica. Alla lunga sequenza dei fiati è seguito un solo, ancora più esteso, delle percussioni africane di Kouate, talora assecondato da Moye.


Una sequenza di grande impatto musicale e teatrale che ricordava all’ascoltatore come nella cultura africana prima, e nel jazz poi, non ci sia distinzione netta fra sacro e profano, fra quotidianità e trascendenza, fra spirito e corpo.


Cessati gli applausi e sfumato l’incanto Roscoe Mitchell è partito per una delle sue tipiche, roventi improvvisazioni al sax soprano. Lunghi minuti di suoni stridenti e ruggenti, senza respiro. Quando alla fine i ritmi hanno cominciato a interloquire con lui, si è avuta l’impressione che uno spirito potente avesse calmato i furori di una natura fuori controllo. In qualche maniera l’ascoltatore ritrovava qualcosa cui aggrapparsi. Il concerto si è snodato su una serie d’improvvisazioni che rimandavano al free quanto al jazz delle origini. In un lungo solo, senza supporto ritmico, Hugh Ragin ha sfoderato un suono tanto potente che sembrava evocare il mito di Buddy Bolden.


Poi Roscoe Mitchell ha imbracciato il tenore e ha lanciato, il giustamente famoso tema di Odwalla. E l’ascoltatore di cui si è parlato prima si è anche emozionato. Anche il suo vicino di poltrona più giovane e di cultura marcatamente rockettara era entusiasta entusiasmato.


Dopo lunghe ovazioni e un bis tutt’altro che di maniera il concerto si è chiuso.


Riflessioni finali. Quanti artisti, anche più giovani Roscoe Mitchell e Don Moye, sono oggi capaci, di inchiodare un teatro pieno di ascoltatori, proponendo una musica tanto impegnativa e poco immediata? Quanti sono capaci di una tale carica evocativa? Di far sentire nuova e vitale una proposta che data quasi cinquant’anni?



Segui Jazz Convention su Twitter: @jazzconvention