Roma Jazz Festival 41ma edizione

Foto: il manifesto della rassegna










Roma Jazz Festival 41ma edizione

Roma – 5/30.11.2017


A Roma, per quanto riguarda il jazz, novembre è da tradizione il mese del Roma Jazz Festival, quest’anno dedicato al legame tra la musica afroamericana e la spiritualità.


Giunto alla sua quarantunesima edizione, la manifestazione si apre in grande stile con il super gruppo capitanato da due vecchi compagni di palco, il pianista Chick Corea e il batterista Steve Gadd. Con loro in questo tour mondiale il chitarrista Lionel Loueke, Carlitos Del Puerto al basso e contrabbasso, Luisito Quintero alle percussioni e Steve Wilson al sax alto. Le sonorità latin fanno da filo comune ai lunghi brani proposti, la gran parte inclusi nel nuovo doppio album Chinese Butterfly, con i sei bravi nel non pestarsi mai i piedi, evidenziando anzi un interplay ormai affinato. L’iniziale A Spanish Song entusiasma subito per una ritmica eccelsa e per la classe di un veterano come Corea, con la line up dapprima più in ombra. Brani nuovi, vecchi e inediti si alternano con linearità e coerenza, con un apporto importante di ogni componente, soprattutto nell’originale fraseggio di un Loueke che mette in mostra anche una bella voce. Corea trova subito il feeling giusto con l’affollata Sala Santa Cecilia chiedendo di non far abbassare le luci per vedere e sentire meglio il pubblico, che ricambia ad ogni assolo con applausi convinti e divertiti. Il concerto non presenta picchi né cali rimanendo sempre piacevole e concludendosi, dopo più di due ore, con il tema più celebre del pianista americano, quell’Armando’s Rhumba che non nasconde nel titolo le sue chiare origini italiane.


Una gremita Chiesa Evangelica Metodista fa da splendida quanto inedita cornice alla performance del giovane pianista Tigran Hamasyan. Fresco di stampa per la Nonesuch Records con un album in piano solo, il musicista armeno si presenta vittima di un’influenza che non gli permetterà di cantare, ma che non gli impedirà tuttavia di realizzare un concerto breve ma intenso. Sin dalle prime note, infatti, Tigran incanta con le sue raffinate melodie in cui sono racchiusi elementi prog, jazz, etnici e classici. Dolcezza e rabbia, coerenza e rottura per una musica di contrasti che inizialmente necessita di un ascolto attento, ma che pian piano conquista l’attenzione di tutti i fortunati presenti immergendoli in atmosfere senza tempo davvero uniche, per un talento che conferma, anche in piano solo, quanto di buono aveva già fatto ascoltare nelle precedenti esibizioni.


Il 2017 è stato anche l’anno di grandi centenari per il jazz, e il Roma Jazz Festival ha giustamente scelto di omaggiare questi compleanni importanti con Simona Molinari per i cento anni di Ella Fitzgerald, con la Lydian Sound Orchestra per quello di Dizzy Gillespie, e con ben quattro pianisti per il centenario di Thelonious Monk, con Dado Moroni intento a fare le veci del padrone di casa. Quattro personalità e quattro stili di piano completamente diversi, con il nostro Moroni più brillante, Cyrus Chestnut più frizzante, più classico Danny Grisset e infine il più concreto e titolato Kenny Barron, ideatore di un progetto che va avanti da qualche anno con interpreti e repertori diversi. I quattro si alternano in esibizioni solitarie nella prima parte, seguite da spettacolari duetti nella parte centrale, con il gran finale che vede coinvolti tutti e quattro i pianisti sul palco. Ciascuno rilegge a proprio modo i grandi classici e i brani più nascosti del repertorio di Monk, da Evidence a San Francisco Holiday, da Shuffle Boil a Reflection fino al bis finale affidato al classico andamento blues di Blue Monk, luogo ideale per lunghi monologhi e scambi di assoli. Ad arricchire una serata sempre divertente gli aneddoti sul pianista e su cosa ha rappresentato per tutta la comunità del jazz l’insegnamento di Monk, per una formula ormai consolidata che ha il pregio di scongiurare una qualsivoglia forma di spettacolarizzazione, in una bella e sentita rilettura dell’arte di una colonna della musica moderna.


Atmosfere totalmente diverse quelle create da un trio, formato dal pianista cubano Omar Sosa, dal senegalese Seckou Keita alla kora e dal venezuelano Gustavo Ovalles alle percussioni, che attinge ispirazioni dai suoni provenienti dalle più distanti parti del mondo. La tappa romana è l’ultima di una tournée che ha toccato i palchi più prestigiosi in concomitanza con l’uscita del loro ultimo album, Transparent Water. Ed è proprio l’acqua l’elemento che fa da continuo sottofondo e a cui i tre con rispetto dedicano l’intero progetto in una musica incantevole che rimanda a luoghi lontani, intrisa di sonorità latin jazz, di tradizioni africane e di improvvisazioni classiche e moderne. I tre riescono a far convivere negli stessi brani i ritmi più rilassati ed eleganti con quelli più sostenuti e ballabili con estrema armonia, facendo apparire semplice una musica estremamente complessa e articolata, fatta di virtuosismi e assoli mai troppo forzati, sempre straordinariamente lirici e cantabili. Un trio unico per molti versi, in cui alla classe e al gusto finissimo si aggiunge la empatica simpatia dei tre che rende il tutto affascinante e seducente, per quello che in definitiva rimarrà sotto tutti i punti di vista il concerto più entusiasmante dell’intero festival.


In conclusione trova spazio anche il pop di una giovane star già sulla cresta dell’onda, l’organista Cory Henry. A capo dei suoi The Funk Apostles, il musicista newyorkese mischia la tradizione gospel e blues delle origini con l’RnB ed il pop per una musica moderna particolarmente di moda negli Stati Uniti. Supportato da una band che non entusiasma in nessuno dei suoi elementi, anche lo stesso Henry lascia indifferenti sia alla voce che alle tastiere, confermandosi invece un autentico animale da palcoscenico. Ci mette infatti poche note ad ingraziarsi i numerosissimi fans accorsi coinvolgendoli a ballare e cantare i ritornelli dei leggeri brani ripetuti a più non posso. I pezzi rimandano agli anni settanta, ma non trovano mai qui una nuova veste convincente, apparendo di contro sempre abbastanza ruffiani. Bisogna comunque riconoscergli il merito di aver riportato al festival molti giovanissimi tra il pubblico, e poco non è, rimanendo però questo forse il miglior pregio della sua intera performance.



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