Giorgio Albanese e i suoni del “Maestrale”

Foto: la copertina del disco










Giorgio Albanese e i suoni del “Maestrale”




Giorgio Albanese, fisarmonicista e compositore, è l’autore di Vento di Maestrale, un disco fascinoso, intenso, che trasmette un forte senso di libertà, di apertura mentale e musicale.



Jazz Convention: Chi è Giorgio Albanese, perché hai scelto come strumento la fisarmonica, e quale è la tua formazione musicale?


GA: Io sono un musicista, compositore, improvvisatore, fisarmonicista e didatta pugliese, originario di Ostuni, per la precisione. Ho iniziato a suonare la fisarmonica per gioco, quando ero bambino: tutto iniziò una sera di mezza estate quando i miei mi portarono ad una festa, c’era un ragazzo che ad un certo punto tirò fuori dalla custodia uno strumento che non avevo mai visto. Il suo suono – e, soprattutto il movimento del mantice – mi stregò totalmente. I miei genitori sorpresi mi chiesero se mi sarebbe piaciuto averne una per giocare… e così fu. Dal quel momento non sono più tornato indietro.
Iniziai a studiare musica e nel giro di poco tempo mi esibii nei luoghi più disparati, amavo trascorrere ore suonando la fisarmonica. Ho iniziato a studiare musica tradizionale e/o trascritta per fisarmonica, musica classica e non. Nel periodo dell’adolescenza la curiosità mi portò ad ascoltare diversi generi musicali – la buona musica mi attraeva e compravo dischi e libri di tutti i tipi perché affamato di conoscenza -. Un giorno comprai – per errore – Free Jazz di Ornette Coleman: dal quel momento pensai che c’era qualcosa di veramente liberatorio in quella musica, che in qualche modo attribuivo al jazz, anche se non ero sicuro di averci capito molto. Grazie a quel dubbio comprai dischi di Monk, Ellington e Coltrane. Avevo letto di loro su una rivista di musica jazz che mi era capitata tra le mani. Mi innamorai follemente del jazz soprattutto quando sentii Jarrett in Forth Yawuh, del 1976, con il suo quartetto con Redman, Haden, Motian. Tutt’ora è il mio disco preferito. C’era un problema però: in nessun disco e in nessun genere musicale che mi piaceva ed interessava sentivo la fisarmonica. Ho sempre pensato fin da allora che era un ingiustizia e non mi spiegavo il perché, nonostante io immaginavo sonorità meravigliose con il mio strumento, assolutamente compatibili con i generi musicali più “moderni”. Purtroppo non era mai o quasi mai presente. Successivamente ho suonato in tantissimi gruppi di qualsiasi genere prima di capirmi al meglio. Solo successivamente ho studiato musica jazz e fisarmonica classica a livello accademico, al Conservatorio di Bari e Monopoli per la precisione. Il mio percorso è sempre stato abbastanza diverso rispetto a quelli comuni: ho prima imparato a suonare e poi ho studiato musica; ho prima improvvisato e poi studiato l’arte dell’improvvisazione; prima composto e successivamente imparato le tecniche compositive. Credo che questo sia stato fondamentale nella mia crescita sia umana che professionale.



JC: Tu hai alle spalle collaborazioni con musicisti di generi diversi. Come queste frequentazioni hanno influito sulla tua formazione musicale?


GA: Ogni collaborazione mi ha dato qualcosa, tutto fa parte di un preciso disegno che mi ha insegnato a vedere le cose per quello che sono e nella loro specifica funzione. Come ogni persona nella nostra vita, ogni collaboratore ci insegna qualcosa che aggiunge valore a noi stessi. Dobbiamo essere grati per questo.



JC: Hai composto anche musiche per film e rappresentazioni d’arte…


GA: Si, mi è capitato di comporre musiche per cortometraggi, film muti, spettacoli teatrali, oltre che per i vari progetti di cui faccio parte. Ho sempre visto l’arte come un’espressione multiculturale dove le separazioni sono solo un becero esercizio di semplificazione ma che spesso non dicono onestamente la verità sulle cose.



JC: Al jazz come ci sei arrivato? Questa musica è un punto d’arrivo o un ponte verso altre musiche?


GA: Considero la musica jazz come un grande bacino interculturale dove tradizione e avanguardia convivono serenamente, dove la ricerca musicale più profonda può incontrare le tradizioni del mondo, chissà forse potrei affermare di vivere l’esperienza del jazz come una sorta di Esperanto, ma con un linguaggio vivo, in continuo movimento. Sono però altresì consapevole delle origini di questa musica, delle sue radici e del suo percorso, e del suo messaggio nel mondo. Il jazz è la musica colta di origine afro-americana ed insieme con la musica classica, è musica “colta”, musica di ricerca oltre che di spettacolo.



JC: Vento di Maestrale è il tuo ultimo lavoro. Lo consideri una sintesi delle tue diverse esperienze musicali? Inoltre sei l’autore dei sei brani che fanno parte del disco. Le composizioni vanno dal jazz al folk alle sonorità mediterranee. Sono ben presenti anche tematiche contemporanee. I pezzi restanti sono eseguiti in quintetto con una formazione di ottimi musicisti…


GA: Come dicevo poc’anzi, Vento di Maestrale è una sintesi personale di diverse esperienze musicali, extra-musicali, artistiche, professionali. Jazz, Free jazz, rock, progressive, si esprimono in qualche modo nelle mie composizioni che ho scelto di registrare. Ho cercato di essere sincero e di fare il mio meglio nell’aprire la possibilità a nuovi sentieri. Ovviamente è stato davvero importante il ruolo che hanno avuto i miei splendidi collaboratori: Gianni Lenoci, Steve Potts, Pippo D’Ambrosio e Danilo Gallo sono stati eccezionali! Sono stato fortunato perché non potevo scegliere di meglio…



JC: Ti sei ritagliato uno spazio tutto per te dove suoni la fisarmonica in Labirinto.


GA: Si, fin dal principio ho voluto proporre musica concepita per quintetto, solo e orchestra. L’ho fatto con l’intento di porre l’attenzione su diversi livelli auditivi, non solo per un’esigenza compositiva. Il brano suonato da solo con una chiara sonorità etnica/modale, si pone in qualche modo al confine tra la musica jazz e world music moderna.



JC: Il disco si chiude con un lungo brano intitolato Suite del Maestrale. Qui fai suonare un’orchestra di quindici elementi. Quanto c’è in questo pezzo della tua esperienza con Pino Minafra e come hai fatto a tenere in equilibro per ventuno minuti melodia, aperture free, accelerazioni timbriche e suggestioni temporali?


GA: Suite del Maestrale è a tutti gli effetti una composizione contemporanea concepita per qualsiasi ensemble. L’idea nasce da un laboratorio di improvvisazione e composizione che ho concepito, chiamato Apulian Lab Orchestra, dove ho chiamato musicisti di diversa estrazione musicale a collaborare. La scrittura è stata pressocchè grafica e mi sono avvalso dell’uso della “conduction” per direzionare dinamicamente l’andamento della registrazione. Abbiamo registrato due tracce e, come com’è accaduto per tutti gli altri brani, ho scelto la prima. Questa composizione è un po’ frutto di esperienze fatte nell’ambito della free improvisation, musica classica contemporanea, free jazz e ascolti musicali trasversali. L’esperienza con Pino Minafra e la Minafric è successiva al concepimento di questo disco anche se sicuramente in qualche modo ne sono stato influenzato poiché da piccolo i miei genitori mi portavano ad ascoltare l’Italian Instabile Orchestra, ogni qualvolta suonava in Puglia. Amavo quella libertà e sognavo di suonare così un giorno. Ho sempre molto ammirato Pino e la sua volontà di proporre un jazz fresco, dinamico e con sonorità contemporanee ed originali in giro per il mondo. Condivido inoltre con lui l’idea che lega tradizione ed innovazione alle radici e sonorità della nostra terra: credo che sia una delle chiavi più importanti – e spesso purtroppo viene sottovalutata – per ogni uomo, ricercatore, musicista ed artista dei nostri tempi.




Segui Flavio Caprera su Twitter: @flaviocaprera