Open Papyrus Jazz Festival – Trentottesima Edizione

Foto: Umberto Germinale










Open Papyrus Jazz Festival – Trentottesima Edizione

Ivrea – 23/24.3.2018

«L’Open di Ivrea compie quest’anno trentotto anni: dovrebbe avere raggiunto l’età della maturità, della saggezza e, invece, ha ancora l’intenzione di celebrare la pazzia…» Con queste parole l’Assessore alla Cultura del Comune di Ivrea introduce la seconda serata del festival, che ha come tema unificante proprio “L’Elogio della Follia”. È una rassegna allestita con coraggio e argomentazioni profonde dal direttore artistico Massimo Barbiero, coadiuvato dai suoi valorosi collaboratori, persuaso della necessità di iniziative come questa «per rafforzare il senso di appartenenza a una comunità e la consapevolezza di farne parte». Il programma non concede nulla alle mode attuali o alla musica di intrattenimento, per scelte estetiche precise. Ogni serata è organizzata, infatti, con un obiettivo dichiarato. Non c’è spazio per quelli che non hanno compreso “il senso culturale del jazz”, ma si limitano a utilizzarne il linguaggio in progetti vacui e superficiali, insomma.


Il 23 marzo nella chiesa sconsacrata di S.Marta, l’autore presenta “Il Michelone”, nuovo dizionario del jazz. Accanto a lui siede un giovane chitarrista, Giuseppe Garavana, impegnato a porre domande al professore vercellese. Il libro è un ponderoso volume di 600 pagine e raccoglie 1200 recensioni scritte in più di trent’anni di onorata attività da Guido. Spesso si trovano nomi non proprio consueti in opere di questo tipo, come quello dei Beatles, ma si sa che Michelone ha una visione molto aperta del jazz e ama in particolare le contaminazioni. L’incontro procede veloce con un botta e risposta agile fra i due interlocutori e un buon feed back con la sala.


Subito dopo una breve pausa dedicata alla degustazione di prodotti locali, prende possesso della scena l’Oba Mundo Project, un quartetto votato alla rilettura di famose colonne sonore. Il repertorio passa da “La vita è bella” a “C’era una volta il West”, da “Nuovo cinema Paradiso” a “Orfeo Negro”….Il gruppo ripropone autentici classici con il dovuto rispetto per melodie immortali, lavorando in modo incisivo dal punto di vista timbrico, per mezzo di ricercati intarsi fra la chitarra di Loris Deval e il violino di Anais Drago. Ci pensa, poi, Gilson Silveira a colorare l’esecuzione, aggiungendo un tocco ritmico latino all’insieme. Non si può dimenticare, ancora, il sostegno di spada e di fioretto, di accompagnamento e di canto, del bassista Viden Spassov in linea con il suo ruolo stabilito. A sette anni dalla pubblicazione del cd “Seta” in compagnia del Lorelei Quartet, Loris Deval torna a illustrare la sua visione di una musica dai toni eleganti e amabili, cioè, mai fuori dalle righe. Il concerto arriva, così, agevolmente ad un pubblico trasversale che accoglie festosamente ogni passaggio.


Più tardi ci si trasferisce al Teatro Giacosa per assistere all’esibizione del sestetto di Helga Plankesteiner denominato Plankton, come il disco uscito per la Jazzwerkstatt nel 2013. La leader schiera una formazione molto agguerrita composta due altoatesini, due veronesi e due tedeschi e presenta un jazz di chiara impronta europea, dotato di solennità, di aplomb e allo stesso tempo ironico e scapigliato. Nella performance si transita da momenti in stile New Orleans ad intermezzi funky, da aperture romantiche, dove viene citato Schubert, a parentesi vicine al free, in modo coerente e armonico. In più la coppia di ottoni berlinesi interviene in modo virtuosistico, con un idioma moderno, avanzato, andando a scovare note e fraseggi inusitati, fra i suoni gravi, profondissimi del trombone e quelli acuti, ispidi della tromba. Terragnoli e Bandello sono un po’ in disparte, apparentemente, in realtà costruiscono un reticolato sonoro, dove possono entrare ed uscire a piacimento le altre voci della band. Michael Losch, da parte sua, conduce il gioco, quando c’è l’occasione, con un uso sapiente e costruttivo delle tastiere. La Plankesteiner, oltre che efficace sassofonista e clarinettista, si destreggia anche con il canto e non è certo una novità. Gli applausi, alla fine, non vengono lesinati per un ensemble che porta avanti con sicurezza e personalità un sound marcatamente mitteleuropeo di caratura internazionale.


È il turno, successivamente, di Enrico Rava che torna ancora a Ivrea, stavolta con la sua ultima formazione, il New Quartet, attivo dal 2014 e con alle spalle l’incisione di un disco per la ECM. Proprio da Wild Dance sono tratti i brani del set con una certa tendenza ad unificare lo svolgimento dei pezzi in grappoli, prendendo minimi momenti di pausa fra una sequenza e l’altra. Il trombettista ora è passato al flicorno soprano e misura letteralmente le parole, rispetto ai suoi trascorsi di piacevole affabulatore. In compenso fa parlare e cantare il suo strumento di ottone sfoggiando un timbro lirico e ispirato o andando a esplorare sonorità aspre e scabre. Quando si lancia in un’ennesima versione di My Funny Valentine, Rava dispiega tutta la sua abilità nell’epitomizzare versioni storiche dello stesso standard, né riprendendo pari pari altri modelli, né ricopiando sé stesso. E la canzone americana diventa uno dei punti più alti del concerto proprio perché contiene come prassi consolidata un qualcosa di inedito. Per il resto c’è da sottolineare la grande sintonia fra il leader e i giovani partners. In particolare Morello allestisce un accompagnamento differenziato sui tempi dispari, conducendo il quartetto a rimanere in equilibrio su una base insidiosa e mutevole. Diodati ha preso padronanza della situazione rispetto agli inizi della militanza con il trombettista e procede spedito. risoluto con la sua chitarra elettrica inguainata in una fusion multidirezionale. A Francesco Ponticelli spetta l’onere di sostituire l’assente Gabriele Evangelista, talentuoso bassista di ottime speranze, ormai certezze e si disimpegna con merito, vista la difficoltà del compito ricevuto. Un pubblico purtroppo non molto numeroso premia la freschezza e l’inventiva dei quattro musicisti con applausi sinceri non di circostanza.


Oltre la mezzanotte, al caffè del teatro, intrattiene i numerosi avventori The Essence Quartet, un gruppo solido, orientato verso un jazz energico ed espressivo, adatto per tenere desta l’attenzione degli aficionados della rassegna.


Il sabato Claudio Sessa è invitato a introdurre il libro “Grande musica nera” di Paul Steinbeck, recentemente tradotto in italiano. È sempre un piacere ascoltare le riflessioni di una delle persone più esperte ed appassionate che si possono incontrare in questo ambiente, come l’ex direttore di Musica jazz. Sessa elogia incondizionatamente l’arte dell’ensemble di Chicago, capace di sintetizzare nelle sue performance la black music, la contemporanea, l’azione teatrale e la storia della cultura afroamericana. L’eloquio del giornalista milanese è incisivo, convolgente ed è supportato nel contraddittorio da Massimo Barbiero che ha denominato con il nome di una delle composizioni più famose dell’AEOC, Odwalla, la sua notissima band di percussionisti. Non ci sono omaggi di altri personaggi allo storico gruppo chicagoano, alla fine dell’incontro. Vengono semplicemente diffuse nella sala le note di un certo numero di pietre miliari di Roscoe Mitchell e soci.


Alle 21 e 30 al Giacosa spetta a Umberto Petrin e Stefano Benni rendere omaggio a Thelonious Monk con il reading poetico Misterioso. I due protagonisti dello spettacolo, rodato da tante rappresentazioni in giro per l’Italia, sono illuminati da luci bianche, mentre la scena rimane quasi nell’ombra. Il poeta emiliano tratteggia la figura del geniale pianista dall’idioma sghembo, sgrammaticato, come un campione fra gli esclusi, gli emarginati nella società razzista e puritana degli anni cinquanta e sessanta. Il suo silenzio prolungato nel tempo viene interpretato come una sorta di protesta muta verso un’America classista e intollerante. Benni legge i suoi testi, ma anche quelli di altri autori della beat generation con un tono determinato e tagliente. Petrin è a suo agio con il grande “Sphere”, di cui conosce ogni piega delle sue opere. La riproposta di brani come ‘Round Midnight o Evidence è effettuata, cioè, da un musicista che è in grado di penetrare nella trama del songbook monkiano per riviverlo in tutte le occasioni dal suo interno, svelandone l’anima.


La prima parte dell’ultima serata si chiude fra i consensi di un pubblico conquistato dalla bellezza delle parole e dal senso profondo della musica ascoltata.


La Lydian sound orchestra, una band di undici elementi, oltre ad un trio vocale, ha il ruolo di finire la serata in teatro. Il progetto è dedicato a Martin Luther King nel cinquantesimo anno dalla morte e riprende, nel suo corpo centrale, alcune composizioni di Max Roach, tratte dalla Freedom Now Suite. Brazzale guida l’organico a sua disposizione con una direzione ferma ma allo stesso tempo flessibile. Le sezioni procedono per blocchi omogenei o contrapposti, con una grande attenzione per l’aspetto timbrico, attestato dall’accostamento inconsueto di strumenti piccoli o della famiglia delle ance, fra clarinetto basso e flauto, ad esempio. Il pieno orchestrale si fa, alla stessa maniera, sentire con segmenti in cui suonano tutti ed esce prepotente il groove di un ensemble in grado di superare eventuali scabrosità nelle parti scritte, grazie ad una coesione ammirevole raggiunta per mezzo di una preparazione adeguata del repertorio scelto. Qui l’improvvisazione è del tutto pianificata. Non si procede a braccio o fidando nella buona vena degli strumentisti.


Fra i solisti, poi, si distingue Mauro Negri, ospite non annunciato, autore di alcuni interventi al clarinetto soprano di livello assoluto. Non per niente Negri è ritenuto uno dei migliori specialisti europei sul suo strumento, da Enrico Rava, tanto per citare il nome di uno che se ne intende… Non è parsa, invece, del tutto convincente la prova della cantante, Vivian Grillo, sicuramente bene impostata, non proprio adatta, però, per interpretare pezzi che avrebbero richiesto una voce più ardita e “maleducata”.


Dopo aver ascoltato il bis richiesto a gran voce dalla platea del Giacosa, ci si trasferisce, dopo mezzanotte, al caffè del teatro dove la Traditional jazz band fa muovere il piedino o scatena l’entusiasmo dei numerosi clienti del locale. Si chiude con il dixieland un festival che, come d’abitudine, rappresenta in quattro giornate tante forme del jazz attuale in una serie di appuntamenti di qualità indiscutibile .



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