Tempo di Chet @ Teatro Modena, Genova

Foto: la copertina di “Sketches for Victor Jara”









Tempo di Chet

La versione di Chet Baker di Leo Muscato e Laura Perini

Genova. Teatro Modena – 8.1.2019

Paolo Fresu: tromba, flicorno

Dino Rubino: pianoforte

Marco Bardoscia: contrabbasso

Alessandro Averone, Rufin Dho, Simone Luglio, Debora Mancini, Daniele Marmi, Mauro Parrinello, Graziano Piazza, Laura Pozone: attori

Leo Muscato: regia

«Chi viene a teatro si chiede: è un concerto o è la rappresentazione drammatica della biografia di un musicista?» riferisce uno degli attori all’incontro con il cast dello spettacolo nella Sala Mercato, attigua al Teatro Modena. È difficile dare una risposta univoca a questa domanda. È più facile illustrare cosa avviene sulla scena per arrivare, magari in seguito, ad una possibile determinazione di questa opera dalle diverse e congruenti sfaccettature. Al centro del palco, è posizionato il bancone di un ipotetico bar. Sulla sinistra, si trova una poltrona su cui siedono i vari personaggi per raccontare i collegamenti fra un momento e l’altro della vicenda. Sulla destra, ci sono un telefono a parete e una porta da cui entrano ed escono i protagonisti delle azioni sceniche. Su un soppalco, suonano e si muovono i tre musicisti, Fresu, Rubino e Bardoscia. In alto, scritte luminose al neon evocano nomi di locali e di città.


Gli attori sono otto e in totale danno corpo e vita a ben trentotto personaggi. Il solo Alessandro Averone si limita a calarsi nella parte di Chet Baker.


La vita del grande trombettista è tratteggiata attraverso una serie di sequenze in senso cronologico, anche se non mancano i ritorni indietro al passato. I vari personaggi della narrazione, poi, sono decisamente tipizzati. Hanno un profilo tagliato con l’accetta, cioè. Questo per precisa scelta registica. Ogni protagonista viene evocato e funziona solo per il grado di influenza esercitato su Chet. Non sono importanti, in questo modo, i ritratti a tutto tondo. È sufficiente mettere in rilievo una caratteristica forte della personalità, quella messa a fuoco nell’interazione con l’artista dell’Oklahoma. Così Charlie Parker, ad esempio, è disegnato con un carattere decisamente estroverso, una simpatica canaglia a tutti gli effetti. Di Gerry Mulligan si sottolinea l’irritabilità facile. Il padre si rivolge al figlio barcollando e con un bicchiere di liquore in mano… Tutto è finalizzato allo sviluppo di una tragedia a suo modo classica. Il percorso di autodistruzione di Baker è visto per tappe successive con gli alti e bassi di un’esistenza sempre al limite, dove solo l’arte, il talento purissimo, rifulgono fra le macerie di una vita dissipata. Gli episodi rappresentati, dall’arresto a seguito della tossicodipendenza al carcere, dai primi successi alla vittoria nel referendum della rivista Downbeat, sono in successione ma sembrano ambientati in una dimensione extra-temporale. Pare che Chet, alla fine della sua parabola umana, riavvolga il nastro per mettere a fuoco alcuni passaggi memorabili, nel bene e nel male, del suo cammino esistenziale. Contemporaneamente a questo aspetto teatrale della messinscena, si dipana un lungo flusso musicale ad opera dei tre musicisti sunnominati. Lo spettacolo dura per due ore e non c’è mai un attimo di sosta per il terzetto radunato da Paolo Fresu, in questo lasso di tempo. Non si tratta, però, solo di una colonna sonora della pièce. La musica è protagonista quanto le parole, invero, sia quando accompagna la recitazione, sia quando si presenta in primo piano. Solo in qualche “sketch” il volume del suono degli strumenti va quasi a coprire le battute degli attori invadendone il campo. Di regola si verifica un intarsio virtuoso ed anzi, a volte, sono gli interpreti a spingere la musica su determinati sentieri, altre volte succede il contrario. Si procede fra tensione e distensione, con un fruttuoso interscambio di stimoli fra i jazzisti e i protagonisti dell’allestimento. Fra questi si segnala in particolare la prova di Averone, capace di scavare a fondo fra le pieghe di una personalità complessa come quella di Baker, restituendone un’immagine realistica e poetica allo stesso tempo.


In uno snodo fondamentale della messinscena, Chet confessa: «Volevo lasciare un segno nella storia del jazz. Forse non ci sono riuscito.» Si sbagliava…


Fresu e i suoi giovani partner, da parte loro, eseguono una serie di brani originali, più quattro standards, cavalli di battaglia del trombettista statunitense. Il trio procede in modo molto ispirato, con una souplesse controllata, salvo, in qualche caso, mettere dentro un po’ più di vigore, di energia, ma senza esagerare. La proposta musicale risulta così un elemento sicuramente qualificante dello spettacolo.


Leo Muscato, regista e autore del testo, insieme a Laura Perini, ha svolto un lavoro mastodontico per informarsi compiutamente sull’argomento, andando a consultare la ricca bibliografia disponibile. Non ci sono elementi di fantasia nell’opera, insomma. Tutto è documentato. La messinsena, inoltre, è unica nel suo genere. Di Chet Baker hanno scritto in tanti e si sono girati anche film sulla sua vita. Nessuno aveva mai tentato un’operazione di questo genere, però, con un trio jazz a interagire con le parole del copione, a dividere al 50% la responsabilità di questa studiata realizzazione. Per il coraggio manifestato da regista e interpreti nell’affrontare questa autentica scommessa, per il pathos e la dedizione a servizio dell’idea portante messi in campo da tutti, “Il tempo di Chet” si fa assolutamente raccomandare. È uno spettacolo appassionato e appassionante, in grado di coinvolgere il pubblico per la bellezza della musica e la serietà, il rigore e il respiro teatrale con cui è portata avanti la storia di un mito del novecento.



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