Le buone vibrazioni di Gabriele Boggio Ferraris

Foto: Archivio Fabio Ciminiera










Le buone vibrazioni di Gabriele Boggio Ferraris



Nato a Milano nel 1984 e cresciuto in un paesino della campagna lodigiana, Gugnano, Gabriele Boggio Ferraris ha studiato musica a Piacenza e nella metropoli lombarda. Oggi è uno dei vibrafonisti più interessanti della nuova scena italiana nonché animatore di un’etichetta discografica molto particolare come UR Records.



Gabriele Boggio Ferraris: Crescere in un paese di campagna mi ha permesso di poter suonare in qualunque momento della giornata senza paura di disturbare i vicini, cosa che nel centro di una città non avrei potuto fare. Da bambino, suonavo la batteria: a tutto volume, tutti i giorni, tutto il giorno e non mi sono mai posto il problema se potevo farlo o meno. Vivendo in un paesino di campagna era la cosa più naturale del mondo.



Jazz Convention: Poi, però, ti sei diplomato in Conservatorio…


GBF: Ho fatto prima il percorso accademico tradizionale, gli otto canonici per intenderci, a Piacenza: mi sono diplomato in strumenti a percussione. Poi mi sono trasferito a Milano per seguire un corso di specializzazione sul vibrafono jazz con Andrea Dulbecco. Prima, ho voluto studiare con lui perché è un musicista e un didatta di altissimo livello, poi è nata anche un’amicizia tra noi e abbiamo avuto modo di suonare come colleghi. Abbiamo un progetto insieme, chiamato Quartetto Eldorado, formato anche da Simone Massaron alla chitarra e Andrea Baronchelli al trombone: un progetto in cui suoniamo musica originale composta da noi e in cui Andrea ed io suoniamo, alternandoci, la marimba e il vibrafono. Una formazione che si muove verso la fusion per quanto riguarda la scrittura mentre, a livello timbrico, guardiamo sia alle atmosfere mediterranee che a certa suggestioni della prima stagione del catalogo ECM.



JC: Tu suoni uno strumento – il vibrafono, appunto – che conta meno interpreti rispetto ad altri strumenti. Quali sono stati i tuoi punti di riferimento?


GBF: Indubbiamente, anche se può sembrare retorico, visto che lo nominano tutti i vibrafonisti, la stella polare è sempre per chiunque si avvicini a questo strumento Gary Burton perché è indubbiamente il musicista più importante per quanto riguarda la storia di questo strumento; non ci sarà mai nessun altro che potrà avere un impatto così rivoluzionario sullo strumento e intendo da tutti i punti di vista: tecnico ed estetico, repertorio e linguaggio. L’importanza di Gary Burton è paragonabile a quella di pochi altri – penso a Miles Davis o Pat Metheny – che, oltre ad essere bravissimi musicisti, hanno segnato un’epoca e hanno segnato le varie epoche che hanno attraversato. Per dire dell’importanza di Burton: tutti i vibrafonisti di oggi tengono in mano le quattro bacchette con una tecnica che si chiama “Burton”, tecnica che ha inventato lui e peraltro da ragazzino.



JC: E invece i precedenti? Penso a musicisti come Milt Jackson, Lionel Hampton, Bobby Hutcherson…


GBF: Certamente, sono importantissimi anche loro…Tra quelli che hai citato il mio preferito è sicuramente Milt Jackson, un musicista che ho trascritto molto. Li mettiamo in primissimo piano, sono musicisti eccezionale e possiamo considerarne anche altri come Terry Gibbs o Red Norvo, tutti musicisti straordinari. Gary Burton ha però qualcosa che va oltre: se l’assoluto livello musicale ed artistico lo mette alla pari di questi altri grandissimi, Burton è riuscito ad aprire nuove strade per l’utilizzo dello strumento e per il suo all’interno delle formazioni, cose che prima non esistevano. Burton ha dato allo strumento non solo il ruolo solistico e melodico ma anche quello di uno strumento armonico, tanto da poter sostituire la chitarra o il pianoforte, come ha dimostrato nella formazione insieme a Stan Getz, formazione in cui è entrato per una fatalità, se vogliamo, vale a dire la rottura del polso del pianista di Stan Getz.



JC: Tra i dischi della storia del jazz, qual è quello che ti ha spinto maggiormente verso questa musica?


GBF: Sono tantissimi naturalmente. Se devo scegliere dei titoli tra questi, ti direi “Trio in Tokyo” di Michel Petrucciani con Anthony Jackson e Steve Gadd, registrato dal vivo poco più di un anno prima della scomparsa del pianista – un disco che ho davvero consumato all’inverosimile e che mi ha fatto pensare seriamente che avrei voluto suonare il jazz. Un altro è indubbiamente “Kind of Blue” di Miles Davis perché è il primo disco che ho cercato di capire dal punto di vista strutturale: è un paradosso se si vuole, visto che per certi aspetti essendo un disco modale potrebbe essere più semplice dal punto di vista delle strutture ma mi ha fatto capire che la musica jazz non è solamente bella ma può essere anche profonda e complessa sotto molti punti di vista.



JC: E degli italiani?


GBF: Anche qui ce ne sono parecchi. Sicuramente, so di essere scontato, un musicista che ho ascoltato molto all’inizio della mia carriera è stato Stefano Bollani. All’epoca era molto giovane ma nei primi anni, soprattutto all’epoca del suo quintetto chiamato “I Visionari”. Un altro musicista italiano che apprezzo e con cui ho avuto modo di suonare anche insieme è Francesco Bearzatti.



JC: Passiamo ai progetti a tuo nome. Oltre al duo con Luca Dell’Anna che ho ascoltato qualche tempo fa, quali sono le altre formazioni che ti vedono coinvolto?


GBF: Prima della pandemia, con il Gabriele Boggio Ferraris Quartet – formato da Alessandro Rossi alla batteria, Massimiliano Milesi al sax tenore e Giacomo Papetti al contrabbasso – ho vinto il premio Nuova Generazione Jazz, indetto dalla Siae e dalla Federazione del Jazz Italiano: questo premio ci ha permesso di suonare in alcuni festival importanti in Italia e all’estero come il Toronto Jazz Festival. In generale con i vari progetti messi in piedi, nel corso degli anni, ho suonato in moltissimi club storici di Milano come il Blue Note o, fin quando è stato in attività, Le Scimmie.



JC: Come vedi la scena jazzistica di oggi?


GBF: Non sono affatto pessimista. Per certi aspetti è difficile avere una visione unitaria di una scena così fluida, complessa e globale come è quella che ruota intorno a questo tipo di musica che è anche sui generis: penso però che ci sia in questo momento storico una schiera di musicisti meravigliosi e originali in tutto il mondo, forse in Italia siamo un po’ indietro per certi aspetti, ma da ogni parte del mondo arriva una quantità enorme di talenti eccezionali dalle nuove generazioni.



JC: E il pubblico? Si rinnova? come reagisce alle varie novità?


GBF: Questa è una bella domanda… Generalizzando, temo di no: tra il pubblico dei concerti si vedono per la maggior parte persone da una certa età in su, si vedono pochi ventenni, ci sono ma possono essere considerate delle eccezioni. Le giovani e le giovanissime generazioni, francamente non sanno neanche che cosa sia e che esista il jazz. È un nostro dovere cercare di portare la nostra musica verso queste persone.



JC: I media non aiutano…


GBF: È vero però stanno cambiando anche i media. I media di cui usufruiscono i ragazzini di oggi non sono i media che utilizzavano i loro coetanei di dieci o vent’anni fa. Oggi passa tutto su internet: i ragazzi non guardano più la televisione tradizionale, figurarsi i giornali. E su internet c’è tantissimo jazz: è una responsabilità di noi adulti e, in particolare, di noi giovani adulti cercare di fare in modo che il jazz si diffonde, proprio perchè oggi è molto più facile accedere a materiale di grande qualità.



JC: Oggi il livello tecnico e la preparazione dei musicisti sono altissimi ma magari si corre il rischio di essere accademici e con meno anima…


GBF: Se uno ha qualcosa da dire o qualcosa dentro emerge. Penso a Brad Mehldau, musicista dalla preparazione – strumentale ed intellettuale – unica e per molti aspetti inarrivabile. Eppure quello che viene fuori perennemente nei suoi dischi è la sua poetica e la sua estetica. È un discorso questo che investe tutto il mondo: la si fa facile, con la nostalgia dei bei tempi che furono e spesso non ci si rende conto di quanto sia complessa questa musica e di quanti elementi si componga e di come sia difficile, tra tutti questi elementi, tirare fuori qualcosa che sia istintivo, personale o di pancia, qualcosa che magari nemmeno tutti per forza hanno.



JC: Cosa ti vedremo fare nei prossimi mesi?


GBF: Oltre al duo con Luca Dell’Anna, all’inizio del prossimo anno pubblicherò il mio nuovo disco con il mio quartetto e speriamo di presentarlo in posti importanti come il Blue note qui a Milano..E poi naturalmente c’è tutto il lavoro dell’etichetta, la UR Records, che ho fondato ormai cinque anni fa e con cui ho prodotto, oltre ai miei lavori, anche i lavori di molti musicisti importanti delle nuove generazioni, italiani ed esteri: abbiamo prodotto Marc Ribot, Daniele Di Bonaventura, Bob Moses, Enzo Zirilli e tantissimi altri. E, infine, con molti dei musicisti che gravitano intorno all’etichetta, abbiamo dato vita a un organico ampio chiamato Urkestra con cui abbiamo realizzato “When”, progetto benefico nato durante la pandemia, in cui abbiamo coinvolto anche Dave Douglas e Steve Bernstein.




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