Südtirol Jazz Festival Altoadige 2023

Bolzano – 30.6/5.7.2023
Foto: Vincenzo Fugaldi

Quarantunesima edizione dello storico festival altoatesino fondato nel lontano 1982 da Nicola Ciardi, diretto successivamente da Klaus Widmann e da quest’anno da Max von Pretz, Roberto Tubaro e Stefan Festini Cucco. Un programma che prosegue lungo il corso tracciato da Widmann, con una meticolosa attenzione verso le diverse offerte del jazz europeo più giovane e creativo. Chi scrive ha seguito alcuni concerti del vasto festival dall’inizio (30 giugno) fino al 5 luglio.

Il Campo Base del Parco Cappuccini, nel centro di Bolzano, con il provvidenziale tendone che ha consentito di tenere i concerti anche sotto la pioggia (che nella serata inaugurale e in alcune altre non è peraltro mancata), ha ospitato i principali concerti del festival, che come di consuetudine si è svolto anche in numerose altre località della provincia autonoma. Ha aperto la serata inaugurale il quartetto spagnolo Pindio II di Juan Saiz, flautista e sassofonista cantabrico, con Xavi Torres al pianoforte, Manel Fortià al contrabbasso e Genís Bagés alla batteria. I quattro hanno proposto un jazz modale, di impostazione post coltraniana. Il leader si alternava tra flauto, tenore e soprano, con risultati di qualità anche se non particolarmente innovativi. Cenni di spanish tinge, buona varietà compositiva e di atmosfere, ottima coesione, coerenza fra le parti scritte e gli sviluppi improvvisativi. Un breve cambio palco, e l’incontro inedito fra Kid Be Kid e Leïla Martial, due personalità molto differenti eppure rivelatesi complementari, in un set breve e condensato giocato su una improvvisazione senza rete. La berlinese al pianoforte, synth e voce, e la francese, con un ruolo guida, hanno pienamente convinto con la loro compiuta esaltazione della pratica dell’improvvisazione vocale.

In due set tenuti in località e giorni differenti (il bosco di San Genesio e le miniere di Ridanna), il trio “La Litanie des Cimes”, composto dal violinista Clément Janinet, dalla clarinettista Elodie Pasquier e dal violoncellista Clément Petit, quest’ultimo in sostituzione del titolare Bruno Ducret, hanno recato la loro poetica, ispirata al minimalismo ma a un tempo ricca di swing, forza ritmica e improvvisazione, con composizioni originali del violinista che rendevano omaggio a importanti figure come quelle di Steve Reich, del violinista maliano Bina Koumaré e del Coltrane di «First Meditation». Una formazione interessantissima, che giocava abilmente sui contrasti fra le sonorità chiare del violino e quelle brunite degli altri due strumenti, in un gioco suggestivo e coinvolgente. Più compiuto e solisticamente pregnante il secondo set, grazie a condizioni atmosferiche più favorevoli per gli strumenti. Brani tratti dal cd del trio, l’omonimo del 2021 su etichetta Gigantonium.

Nato grazie al festival altoatesino che ha reso possibile l’incontro fra Francesco Diodati, Stefano Tamborrino e Leïla Martial, Oliphantre è oggi un trio dal successo internazionale. Appena tornati dal festival di Gerusalemme, i tre hanno suonato al Parco dei Cappuccini la sera del primo luglio. Una formazione che innova la concezione del trio, ponendo al centro la chitarra di Diodati, creativa come poche, e intorno la batteria e la voce di Tamborrino e la sciamanica e carismatica presenza di Martial, una performer che primeggia decisamente nel panorama europeo, arricchendo la sua incomparabile vocalità con semplici effetti elettronici e flautini, interpretando le songs composte dal chitarrista con grandissima efficacia, come già testimoniato dal disco del trio pubblicato per Auand, dal quale erano tratti i brani eseguiti. Nel bis, in un intenso assolo, Tamborrino ha avuto anche modo di mostrare la sua formidabile vena percussiva. Un trio paritetico, semplicemente perfetto.

Già esibitasi in duo con la Martial, Kid be Kid, giovane pianista, tastierista e cantante di base a Berlino, ha interagito molto col pubblico, utilizzandone il coro per una improvvisazione vocale a cappella. Piuttosto lontana da una concezione jazzistica, fa a tratti un uso percussivo della voce, imitando la cassa della batteria, e imprimendo una carica ritmica a tratti di tipo dance. Brani dal nuovo disco, buona prestazione pianistica, interessante uso del synth, in una esibizione che è risultata piuttosto apprezzata dal pubblico.

Diodati è poi tornato a esibirsi, stavolta in duo con il batterista austriaco Alexander Yannilos, presso la Casa della Pesa, improvvisando su una pellicola del cinema muto del 1926, “Mit dem Motorrad über die Wolken”, di Lothar Rübelt. Una colonna sonora estemporanea per una pellicola di grande impatto, un road movie motociclistico giocato sulla bellezza dei paesaggi montani, sul viraggio della pellicola in diverse tonalità, sul quale i due – al loro primo incontro – hanno giocato con la loro creatività, creando un commento sonoro improvvisato.

Gard Nilssen (nella foto), secondo chi scrive una delle figure più importanti del jazz europeo attuale (forse la figura più importante) è arrivato a Bolzano col suo trio Acoustic Unity, nel quale la sua batteria si incrocia con il contrabbasso del fido Petter Eldh e con il sax tenore, il baritono e il clarinetto di Kjetil Møster. Un set intenso, calibratissimo, un jazz avanzato ma ben radicato nella tradizione, suonato da musicisti strepitosi, dal leader che possiede un drive micidiale, alle pulsanti corde di Ehld, ai vorticosi fraseggi di Møster. Solo tre bellissimi brani, a causa di una pioggia scrosciante abbattutasi proprio nel momento meno opportuno. Il concerto successivo, infatti, previsto all’aperto nel Parco Semirurali, è stato spostato al chiuso, all’interno dell’auditorium della scuola Pascoli, in acustico, con amplificazione per il solo contrabbasso. Due coreane, la leader Sun-Mi Hong e la pianista Chaerin Im, uno scozzese (il trombettista Alistair Payne) e due italiani (Nicolò Ricci al sax tenore e Alessandro Fongaro al contrabbasso), tutti di base ad Amsterdam, per un post bop asciutto, giocato sul lavoro all’unisono di sax e tromba, e su una sezione ritmica forse un po’ penalizzata dall’assenza di amplificazione. Brani meticolosamente costruiti tratti dal disco del gruppo, energia costantemente canalizzata in funzione espressiva, una proposta dunque interessante, nella quale la leader si è mostrata ottima strumentista, con uno stile ricco e variegato. La pianista, di suo, mostrava un tocco accademico, molto delicato nel fraseggio, tecnicamente ferratissimo.

La batterista si è anche esibita il giorno dopo in duo con il trombettista in un luogo che questi ha giustamente definito bellissimo e terrificante, il Bunker H, un rifugio antiaereo tedesco scavato nella montagna che sovrasta un quartiere di Bolzano. Il duo, che ha un disco nato durante la pandemia, ha suonato un set spaziando da momenti di improvvisazione radicale ad altri più strutturati, giocando costantemente su un collaudato interplay.

Come tradizione, il festival offre ad alcuni artisti una residenza presso l’incantevole Stanglerhof di Fié allo Sciliar, un luogo di graNde bellezza che è sempre fonte di grande ispirazione. Qui Dan Kinzelman (tenore, clarinetto, clarinetto basso e voce) e Ruth Goller (basso elettrico e voce), hanno creato un lavoro sul suono e sull’improvvisazione, che si basava su composizioni di entrambi cantate, anche a due voci, con atmosfere IN crescendo e diminuendo che lasciavano respirare la musica, in un set suggestivo.

Di nuovo sul palco principale il trio francese “Nout”, tutto al femminile (Delphine Joussein, flauto traverso e voce, Blanche Lafuente, batteria, e Rafaëlle Rinaudo, arpa elettrica), ha ospitato quasi per l’intero set l’irruenza del flauto e del baritono di Mats Gustafsson. Irruenza che peraltro era già insita nel DNA del trio, che suona una sorta di punk jazz acido, lisergico, bellissimo e travolgente, con un’abbacinante perizia tecnica e una carica comunicativa piuttosto rara. Ai momenti più carichi ritmicamente si alternavano altri melodici e d’atmosfera, in un insieme davvero valido e convincente, con un gran lavoro scenico di luci e fumogeni.

Presso una gremita sala della distilleria Roner, il duo formato dalla chitarra manouche del giovanissimo Antoine Boyer e dall’altrettanto giovane armonicista coreana Yeore Kim, estremamente gradevole e ben suonato su brani originali e temi come Sous le ciel de Paris, Les feuilles mortes, la metheniana Spanish Love Song e Blackbird dei Beatles.

Sempre sul palco principale, infine, il ritorno del chitarrista danese Teis Semey già esibitosi in passato al festival in gruppi altrui, ma qui con il suo quintetto, insieme ad Alistair Payne alla tromba, José Soares all’alto, Jort Terwijn al contrabbasso e Sun-Mi Hong alla batteria. Un ottimo jazz moderno, un post bop avanzato, con una ritmica coesa e pertinente, e fiati agili e scattanti. La batterista ha mostrato forse più che in altri contesti la sua notevole perizia tecnica, le composizioni gradevoli, articolate e interessanti anche sotto l’aspetto armonico, guidate da un leader non invadente, che ha lasciato ampio spazio ai partner.

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