Bari in Jazz 2010. Director’s cut.

Foto: Fabio Ciminiera









Bari in Jazz 2010. Director’s cut.

Bari, 22-25.6.2010


«Il bilancio nonostante tutto è positivo: abbiamo offerto alla nostra città la possibilità di conoscere ulteriori realtà musicali importanti e metterle a confronto tra di loro; abbiamo confrontato nuovamente spazi della città e progetti musicali, abbiamo testato le reali potenzialità della nostra città rispetto al jazz. Da questo punto di vista, credo, abbiamo fatto un ulteriore passo avanti.» Roberto Ottaviano, direttore artistico di Bari in Jazz, parla della sesta edizione del festival. svoltasi a giugno nel capoluogo pugliese. La rassegna – sin da Swimming and Swinging, prima edizione, ambientata in uno scenario decisamente atipico, come le piscine comunali – ha disegnato linee precise: l’esplorazione dei luoghi della città, l’apertura a certe sintesi di linguaggio e uno sguardo ragionato alle avanguardie. «In effetti, sono le linee distintive del festival. Il mio ragionamento poggia su due assi: cerco di lavorare da una parte di lavorare sul sincretismo musicale e, dall’altra, sullo stato odierno dell’avanguardia. Da una parte i musicisti che, a prescindere dalla provenienza, portano nel loro linguaggio elementi popolari, elementi di altri mondi e puntano alla loro sintesi; dall’altra parte, il ragionamento su quello che può essere l’avanguardia oggi, che non deve essere necessariamente qualcosa di velleitario, di stucchevole oppure basato solo ed esclusivamente su certe formule che a mio avviso possono anche considerarsi esaurite, ma cercare di capire come, contemplando tutti gli elementi che l’avanguardia ha messo sul tavolo in questi anni – dalla ricerca rumoristica alla ricerca timbrica, dalla dissoluzione del ritmo e tanti altri ancora – i musicisti di oggi nel loro linguaggio riescano a raccogliere questi pezzi e a ricomporre un puzzle interessante per la contemporaneità.»


Il dialogo con i luoghi della città è da sempre una caratteristica di Bari in Jazz. Oltre alle piazze, ai teatri, al Castello Svevo, palcoscenico della precedente edizione, la scelta delle piccole chiese della città vecchia per i concerti in solo si rivela suggestiva e ricca di spunti. «L’idea delle chiese è un’idea che conserveremo: pone l’artista solitario in condizione di lavorare molto sulla ricerca, offre il respiro giusto per poter praticare una ricerca di carattere timbrico.» Il momento della festa, del concerto in piazza permette di esplorare sonorità di tutt’altro genere e dare spazio ad artisti adatti a un contesto simile. «La piazza dona la musica e l’impatto sonoro alla gente. Questa dimensione aperta – più ampia anche perché si rivolge al mare in una di scenario naturale – è, in maniera diversa, un fatto importante.»


Anche quest’anno Ottaviano ha lanciato due input esterni al programma: lo slogan “ancestrale-musicale” e una riflessione sul ruolo del jazz nei media di oggi. «Cerco di disegnare ogni volta una sorta di oblò, attraverso cui guardare cosa c’è intorno. L’idea di ancestrale-musicale si collega al fatto, fondamentale, che tutta la musica in generale viene da molto lontano e non ha mai fatto mistero di essere una necessità funzionale, legata alla danza, all’intrattenimento, al raccolto, alle varie fasi della crescita di una comunità, ma anche la necessità della comunicazione di un messaggio e anche questa cosa è molto antica.» La musica risponde a necessità profonde quando le parole non ci bastano più, diventa importante uno sguardo, un suono, una condivisione. La possibilità di veicolare un messaggio in maniera così diretta porta al secondo punto. «Il jazz, oggi, è una musica che, come altri generi, guarda soltanto a sé stesso, vuole perpetuare un determinato tipo di repertorio o di immagine oppure c’è ancora la possibilità di scovare qualche artista che possa dare qualche scossone? In questa edizione allo slogan ho unito una provocazione sui mass media e il ruolo che possono giocare e abbiamo coinvolto alcuni giornalisti che, sul catalogo, hanno offerto il loro contributo con un testo sulla funzione della comunicazione nel jazz.»


La funzione sociale della musica è un discorso dalle tante implicazioni: Ottaviano mette in luce come la musica non debba necessariamente essere politica, ma può e deve spingerci a pensare, ad aprire il confronto con altri mondi. «La musica può creare una sorta di ingranaggio in cui tutta una serie di rotelle si metta in moto e uno va a cercare altri riferimenti culturali rispetto ai propri, anche in altre forme di arte e di sapere, dalla letteratura alla gastronomia, mettendo insieme anche cose lontane. Credo moltissimo nel valore che la musica può suscitare da questo punto di vista, un vero e proprio veicolo.»


Tornando al festival, naturalmente poi ci sono anche gli aspetti negativi e la speranza di poter lavorare al festival nel migliore dei modi. «Sebbene uno metta in conto tutte le difficoltà che sta affrontando il nostro paese sul piano del finanziamento pubblico e del degrado culturale, le conseguenze della crisi globale, nello specifico della nostra città le difficoltà sono da rilevarsi nella mancanza di volontà di alcuni dei nostri funzionari e di alcuni dei nostri politici di voler abbracciare un progetto che nei suoi sei anni di età ha già dimostrato di essere un progetto adulto e farlo crescere ulteriormente. Questo è l’unico cruccio nel bilancio di quest’anno.» Il rapporto del festival con la città e la sua scena jazz è un percorso in evoluzione continua. «Credo che Bari in Jazz abbia ricompattato una parte di pubblico: abbiamo fatto capire come sia molto bello frequentare la musica in ambiti diversi, essere presenti, impegnarsi a frequentare le proposte musicali e culturali della nostra città perché questo alle volte è più importante che andare a comprare un CD o un libro, essere presenti, vedere lo spettacolo dal vivo. Il pubblico ha premiato la nostra onestà: fondamentalmente abbiamo fatto il festival cercando sempre di integrarci alle altre manifestazioni che si svolgono nella nostra città senza conflittualità. Credo che un po’ alla volta il pubblico si stia sempre più consolidando e diventa più numeroso. Quando, l’anno scorso, abbiamo iniziato a mettere un biglietto di ingresso abbiamo avuto una risposta molto positiva. Il populismo e la demagogia di molte istituzioni di portare la cultura gratis ha creato molte distorsioni: bisogna riabituare le persone all’idea della scelta – se vado a un concerto sto rinunciando a qualcos’altro, se ci vado è perché voglio andarci. Questo spinge le persone a una maggiore attenzione, a un maggiore spirito critico: se tu hai regalato loro il concerto magari sono più distratti, più fuggevoli. Il rapporto con le istituzioni è sempre tormentato ma questo, ormai, non mi sorprende più, diventa sempre più difficile. La mia speranza, tuttora viva, è che il festival – ormai al suo anno di età – possa essere ritenuto uno dei patrimoni culturali della città ed essere tutelato, salvaguardato, messo nelle modalità migliori per poter affrontare il presente e il futuro. Non c’è grande volontà da questo punto di vista, perché molti dei nostri amministratori – non tutti per fortuna – non hanno lo stesso coraggio mostrato dai musicisti e dagli operatori del territorio. Si basano sulla formula scontata del consenso immediato: preferiscono riempire una piazza con un prodotto di successo garantito piuttosto che cercare qualcosa di unico, dove serve impegno e ma che possa lasciare una traccia nella nostra città.»