Gaetano Partipilo e i dieci anni di Urban Society.

Foto: Paola Sarappa










Gaetano Partipilo e i dieci anni di Urban Society.>

La formazione Urban Society compie dieci anni. Upgrading, il loro ultimo lavoro pubblicato dall’etichetta Jazz Engine, può considerarsi a pieno titolo il meritato regalo che il leader e sassofonista Gaetano Partipilo e la sua band, si concedono per celebrare questo importante traguardo. Lo abbiamo incontrato nel Club 1799 di Acquaviva delle Fonti, in occasione della presentazione ufficiale del disco.



Jazz Convention: Nel 2010 Urban Society ha compiuto dieci anni. Un’ottima occasione per fare il punto della situazione e ripercorrere dagli esordi il percorso di questa tua formazione.


Gaetano Partipilo: È trascorso un decennio e sembra ieri. Credo che questo disco sia un po’ la summa di un lungo percorso fatto di frequentazioni, prove, concerti e tante altre belle esperienze. Un lavoro che sottolinea l’evoluzione di una band formata inizialmente da giovanissimi musicisti che pian piano hanno maturato un proprio linguaggio a metà strada tra il jazz, l’avanguardia e tutto quello che può essere riconducibile ad un suono moderno.



JC: La band quindi è nata qualche anno prima dell’uscita del primo disco?


GP: La band è nata nel 2000. Il primo lavoro, pubblicato nel 2002, è stato registrato in realtà nel 2001, dopo il mio rientro dall’eperienza newyorkese. All’inizio la band era leggermente diversa perché c’erano Nasheet Waits alla batteria e il giapponese Atsushi Osada al contrabbasso. In alternativa a loro c’erano rispettivamente Fabio Accardi e Mauro Gargano. Poi con l’arrivo di Vincenzo Bardaro e Giorgio Vendola, che hanno sostituito Fabio e Mauro, nel frattempo trasferitisi a Parigi, la band ha raggiunto la sua forma definitiva.



JC: I dischi d’esordio di questa formazione sono stati Urban Society e Basic, entrambi pubblicati per la storica etichetta italiana Soul Note.


GP: Quelli sono stati i nostri primi due lavori in studio, seguiti da un terzo registrato dal vivo al festival di Clusone, sempre per la stessa etichetta. Siamo arrivati alla Soul Note di Giovanni Bonandrini quasi per caso. Successe che registrai il disco e glielo spedii. Dopodiché a loro piacque parecchio e decisero di pubblicarlo. Fu per me motivo di grande gioia nonché il raggiungimento del sogno di poter incidere per un etichetta così importante.



JC: Questo ultimo lavoro è stato registrato dal vivo nel 2008 durante un’esibizione al Max Theatre di Arezzo. Cosa ti ha colpito particolarmente nella musica eseguita quella sera e perché hai deciso di pubblicarlo solo ora?


GP: La storia è abbastanza curiosa. Eravamo in tournée in quel periodo e portavamo in giro brani appartenenti al nostro repertorio storico. Quando siamo arrivati in teatro ad Arezzo ci siamo ritrovati con un fonico dotato di un impianto professionale qual’è il Pro Tools multitraccia. L’ambiente e l’acustica del luogo erano l’ideale per registrare e inoltre avevamo a disposizione un pianoforte Steinway. Si sono presentate quindi una serie di circostanze favorevoli che ci hanno fatto decidere di registrare il concerto. Avevamo però in repertorio brani già presenti sui nostri dischi precedenti e ci sembrava quindi inutile registrare ancora quelli. A quel punto, forti dell’esperienza passata in cui avevamo già tentato questo tipo di approccio, con tutti gli alti e bassi che ne potevano conseguire, abbiamo deciso di suonare un paio di nostri brani intervallati da lunghi momenti di totale improvvisazione. Il concerto è piaciuto molto e ne siamo stati molto soddisfatti. La registrazione è giunta a noi però solo a distanza di un anno, quasi a 2009 inoltrato, al quale è seguita una fase di missaggio. Questo spiega il lungo arco di tempo che divide la registrazione del concerto dalla sua pubblicazione. Il coproduttore nonché organizzatore del concerto di Arezzo è stato Nico Scotti. È grazie a lui e all’etichetta Jazz Engine di Marco Valente, che ne ha permesso la pubblicazione, se la realizzazione di questo disco è stata possibile.



JC: Da dove nasce la decisione di presentare tutto il disco attraverso due lunghe suite?


GP: Il concerto è stato prevalentemente un collage, un gioco di continui rimandi, che non si presentava nella classica forma tema-assolo-tema, ma piuttosto qualcosa che si è sviluppato grazie all’apporto creativo di ciascuno. Poteva succedere che Mirko [Signorile] accennasse un tema al pianoforte e che noi lo seguissimo; qualcun altro citava un brano di Sonny Rollins e noi cambiavamo ancora. Tutto questo ha generato un continuo rincorrersi di idee. È stato solo riascoltandolo in seguito che abbiamo individuato e sezionato le suite, intitolando ciascun frammento che le componeva, tra i quali anche standards come Pent-Up House di Sonny Rollins. Ma per la maggior parte è composto da musica totalmente improvvisata.



JC: Tra questi brani ci sono anche un paio di curiosi tributi: uno a Renato Carosone e uno al fisico e inventore Nikola Tesla.


GP: Il brano di Carosone è il mio personale arrangiamento di un suo vecchio brano già presente in Basic. Da bambino sono cresciuto con la sua musica. Avrò avuto quattro, cinque anni e ricordo che lo ascoltavo spesso. Ho così deciso di tributargli un brano, che in realtà conserva ben poco della versione originale, se non per un minimo accenno tematico. Ne ho cambiato armonia e melodia ma è ben riconoscibile per chi lo conosce bene. Nikola Tesla, invece, è un personaggio che ho scoperto per caso. È stato considerato l’inventore del XX secolo. Era uno davanti a tutti. Ma per una serie di ragioni, tra le altre quella di non essere americano d’origine, è stato derubato di molte delle sue invenzioni, attribuite erroneamente ad altri. Pare che la stessa lampadina, ufficialmente ideata da Edison, sia opera sua. Questa scelta è stata data dalla circostanza di dover dare dei titoli a brani totalmente improvvisati che inizialmente non ne avevano. Ci siamo divertiti così, a citare situazioni o nomi di personaggi che in qualche maniera ci ispiravano. La stessa cosa è successa per il pittore Jackson Pollock, un artista che amo molto e che dà il nome ad un altro pezzo.



JC: Il fatto che Upgrading sia il secondo disco registrato dal vivo è sintomatico di quanto la dimensione live sia importante per questa band?


GP: La dimensione live è fondamentale, perché ci ritrovi il calore del pubblico che condiziona inevitabilmente tutto, e decisamente la preferisco a quella asettica dello studio. Con le moderne tecnologie di oggi si può fare di tutto: rifare i soli, correggere gli errori. È un po’ come lavorare ad un immagine con il Photoshop. Si può prendere un cattivo soggetto e renderlo perfetto. Di conseguenza si perde l’essenza di quello che viene fatto. In studio il musicista sa che se sbaglierà qualcosa, potrà sempre rifarla. Il concerto live invece è tutto lì. Ti giochi tutto in quel momento, senza poter tornare indietro. L’emozione che può trasmettere il pubblico, in studio non l’avrai mai. Il rischio e l’attenzione sono maggiori e soprattutto stai suonando per qualcuno. Quello dello studio è un pubblico in differita che ascolterà la musica molto più tardi della sua reale esecuzione e che soprattutto non avrai davanti a te.



JC: Parafrasando il titolo di questo disco, quanto credi la musica che c’è in Upgrading rappresenti un’ulteriore passo in avanti rispetto alle incisioni precedenti?


GP: Lo è per il fatto che per la prima volta ci siamo sentiti veramente un gruppo unito nel creare qualcosa insieme e non solo capace di eseguire brani precedentemente pianificati. Riuscire a costruire qualcosa sul momento, ragionare come un unico cervello è quello che considero un passo in avanti. È questo il motivo per cui ho deciso di pubblicarlo. Se non avesse aggiunto niente di nuovo a quello sinora realizzato, non l’avrei fatto.



JC: Pensando alla musica di questa band, per definizione urbana, ho scelto un passo dalla prefazione del libro Le città invisibili di Italo Calvino, che vorrei commentassi: “Penso d’aver scritto qualcosa come un ultimo poema d’amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come tali. Forse ci stiamo avvicinando ad un momento di crisi della vita urbana”.


GP: Sono assolutamente d’accordo. Io vivo in un piccolo paese di 10.000 abitanti, ma per quanto spesso risieda a Roma, devo ammettere di non avere la fissa della grande città. Molti miei colleghi non riuscirebbero a concepire di vivere così fuori dal mondo. Io invece credo che vivere in provincia aiuti a riflettere meglio sulle cose. La grande città serve a fare la post-produzione di tutto quello che si può realizzare altrove, ad allacciare quei contatti che permettono di veicolare meglio il frutto del tuo lavoro di musicista. Se devo pensare però ad un progetto o scrivere qualcosa di nuovo, ho bisogno di quella tranquillità che la vita frenetica di un città non potrebbe darmi.



JC: C’è un momento particolare vissuto insieme a questa formazione che ti piace ricordare?


GP: Uno dei più belli che ricordi è stato quando abbiamo fatto il disco al festival di Clusone. Erano i primi tempi con questa formazione. Lavoravamo sodo sui brani, facevamo molti concerti e avevamo sperimentato anche un sistema fatto di segni volanti molto simile a quello che usava Miles Davis negli anni ’60. Eravamo entusiasti all’idea di registrare quel concerto e lo consideravamo un occasione per il quale volevamo essere preparati. È stato un bel punto d’arrivo di una fase molto prolifica e creativa. In questi anni il gruppo è maturato molto e non cambierei niente di quello in cui si è evoluto oggi, ma quello è un periodo che ricordo sempre con molto piacere.