MiFaJazz Big Band 2010

Foto: Fabio Ciminiera





MiFaJazz Big Band 2010.

Matera. 23/28 dicembre 2010.

Qual’è la migliore risposta alla crisi? Non fare nulla? Fare finta di nulla? Arrivare fin dove permettono le possibilità economiche e, diciamo così, logistiche?


Comincia con una serie di domande il racconto del MiFaJazz Big Band 2010. Un festival di per sé “costoso” e “complicato”: ogni big band dall’organico completo prevede almeno quindici elementi con tutte le conseguenti difficoltà connesse agli spostamenti, alla gestioni dei palchi, all’ospitalità.


Cosa è successo, dunque, quest’anno? La risposta del festival è stata dunque quella di ridimensionare tutta la struttura della rassegna per cercare di ottenere risultati comparabili con quelli dell’anno precedente e comunque validi in senso lato. Il primo passaggio è stato quello della collocazione temporale: passando da settembre a dicembre si sono potuti sfruttare l’Auditorium del Sedile e le strutture al coperto per i concerti in programma. Certo: si è persa l’idea del concerto in piazza, il coinvolgimento popolare immediato, il calore della fine d’estate, ma non è venuta meno la presenza del pubblico e si è potuto contare su allestimenti già pronti. Lo stesso discorso è stato fatto per le attività collaterali, concentrate tutte nella Libreria dell’Arco e il suo spazio accogliente e intimo, in modo da non disperdere le forze dei componenti dello staff – naturalmente volontari, se ci fosse bisogno di specificarlo – e la presenza del pubblico. Eliminate le jam session, è stato invece dato spazio a iniziative di solidarietà e al legame con i prodotto del materano, in modo da rendere saldo il rapporto tra festival e pubblico, tra il territorio e gli ospiti giunti in città per la rassegna.


Il programma ha annoverato quattro concerti. Il 23 dicembre c’è stata l’anteprima con il composito concerto natalizio nel quale si sono avvicendati l’incontro dei Gospel Times con la LJP Big Band, il Christmas Jazz Quintet ed altri ospiti per una serata dove la musica si è colorata delle atmosfere natalizie. Dopo i giorni di festa, si è ripartiti il 26 dicembre con una serie di “interpretazioni” del gruppo ampio, dal combo allargato alla big band vera e propria. Segno ulteriore della crisi, ma non della qualità artistica delle scelte e soprattutto dell’intenzione di esplorare, comunque, le novità e le progettualità legate al formato ampio.


La prima sera è stata dedicata all’Ambassador Marching Band. Dopo una prima escursione sonora fuori dal teatro, i sei musicisti si sono accomodati sul palco per un set dedicato alle radici del jazz. Se da una parte la strumentazione – il banjo a dettare le armonie, il bassotuba a completare la ritmica con la batteria, una line-up di fiati formata da trombone, tromba e soprano – richiama l’anima del dixieland, dall’altra il repertorio si tinge di scelte retrò aperte sia ai brani di New Orleans che alle diverse tradizioni popolari italiane, dalla canzone melodica ai balli. A questo si unisce la grande voglia di comunicazione del gruppo con il pubblico, soprattutto nelle spiegazioni dei brani – teatrali ed articolate – da parte del banjoista Luciano Corcelli, ma anche attraverso i brani cantati, al microfono o con il filtro del megafono. Guardare alle proprie radici per mantenere intatta la vitalità della musica: questo il senso del concerto e dell’impegno profuso dai sei: musicisti in grado di muoversi sui terreni diversi nei vari progetti che li vedono coinvolti, ma che non disdegnano lo stile e la necessità espressiva di una tradizione marcata.


La East Coast Big Band ha riportato sulla ribalta del festival la big band al completo. Il programma del concerto è stato totalmente dedicato ad Henry Mancini: Massimiliano Rocchetta, direttore della formazione romagnola, ha arrangiato i brani del compositore italo-americano in una rivisitazione intelligente per leggerezza e proprietà. Mancini è – paradossalmente, a suo modo – un sottovalutato nel mondo del jazz: tutti conoscono La pantera rosa, Peter Gunn e i moltissimi altri brani tratti dalle colonne sonore, ma sono pochi – Moon River, da Colazione da Tiffany, The days of wine and roses, dal film omonimo, e qualche altro – i temi entrati a far parte del novero degli standard suonati dai jazzisti. La scelta di Rocchetta è quella di lasciare spazio alle melodie e costruire intorno a questo nucleo un arrangiamento avvolgente e sempre ben controllato, per così dire, e sviluppato attraverso la presenza costante delle diverse sezioni e portando ogni volta molti musicisti alla ribalta dell’assolo con interventi brevi per rendere variegato il brano e non perdere mai la trama del tema.


L’ultima serata del festival ha visto, nella Sala delle Arcate di Palazzo Lanfranchi, il Marco Postacchini Octet. Definita Little Big Band nel depliant del programma, la formazione in effetti porta al suo interno alcuni dei meccanismi dell’orchestra: quattro fiati, due strumenti armonici e la ritmica, l’ottetto ha riproposto i brani di Lazy Saturday, disco pubblicato nel 2010. Se si può ritenere quanto meno singolare, in un periodo di crisi come questo, registrare e cercare di promuovere un lavoro per otto musicisti – leggasi, nessun club potrà mai per cachet e anche per dimensioni del palco, prendere in considerazione una formazione simile – dal canto suo il MiFaJazz Festival ha colto l’opportunità di dare voce a un progetto interessante e ben costruito. Una formazione di musicisti esperti, in gran parte presenti nella Colours Jazz Orchestra: questo permette di gestire in maniera naturale sia le parti realizzate grazie al concorso delle varie linee sia lo svolgimento degli assolo e la conseguente riduzione ai minimi termini della formazione.


Un’edizione ridotta, dunque, ma assolutamente non in tono minore. Le premesse “logistiche” avrebbero potuto scoraggiare un festival che si presenta per la sua seconda edizione, senza la tradizione consolidata da una storia pluriennale. La presenza e l’attenzione del pubblico fanno seguito al grande successo di pubblico dell’edizione inaugurale e sono il risultato di un percorso tracciato in modo coerente attraverso le molte iniziative, legate al mondo delle big band e proposte nel corso della stagione invernale. Lo staff del festival ha promesso che, per la terza edizione, si tornerà all’esterno e alla stagione estiva: la collocazione naturale dei colori e dei suoni delle orchestre jazz, a contatto diretto con il pubblico, diventa, in un certo senso, l’obiettivo primario della rassegna, la sua “normalità” una speranza da perseguire.