Jazz in Europa. Forme, dischi, identità

Foto: La copertina del libro










Jazz in Europa. Forme, dischi, identità

Gianni Lucini conversa con Guido Michelone al Novara Jazz Festival 2016

Novara, Circolo dei Lettori – 4.6.2016





Gianni Lucini: Nel libro definisci il jazz come “world music” nel senso più proprio del termine. Mi ha colpito questa definizione perché antitetica all’accezione normale, abituale del termine “world music”, cioè uno schema mobile e dinamico capace di racchiudere e, in fondo, neutralizzare, tutto ciò che affonda le sue radici nelle culture non rigidamente legate all’universo angloamericano. L’idea di legare il concetto al jazz lo rinobilita non credi?


Guido Michelone: Certo che lo nobilita e devo dirti che il jazz come world music è un’idea espressa negli anni Novanta da Lester Bowie (il trombettista dell’Art Ensemble Of Chicago) quando rilevava le radici, le influenze, le contaminazioni, dall’Africa ai Caraibi, dalla “vecchia” Europa alla “nuova” America che diedero origine al jazz medesimo a fine Ottocento. Da allora a oggi il jazz in America continua ad alimentarsi di dialoghi, fusioni, ibridazioni ed anche in Europa questo fattore si sviluppa addirittura al quadrato!



GL: E così, ci racconti come il Vecchio Continente surclassa il Nuovo Mondo…


GM: Lo surclassa dal punto di vista delle iniziative perché il jazz negli Stati Uniti non ha le varietà locali che invece abbiamo in Europa. Ogni nazione del Vecchio Continente rappresenta un jazz diverso dalle altre e quindi abbiamo trenta o quaranta tipologie di jazz autoctono (italiano, francese, tedesco, britannico, russo e via dicendo). Ma non è solo una questione di Stati sovrani o regionali: il jazz in Europa sta esprimendo, soprattutto dagli anni Sessanta, una creatività davvero originalissima che si riversa in tanti stili persino eterogenei o fra essi lontani e differenti.



GL: Trovo interessanti i due momenti chiave che hai individuato nel rapporto tra Europa e jazz statunitense: il primo che definisci dell’accoglienza con la Liberazione, il 1945, il jazz delle band militari mescolato al boogie-woogie, eccetera; e il secondo, il Sessantotto, che definisci del rifiuto o, direi io, della necessità di recidere il cordone ombelicale magari uccidendo anche il padre…


GM: In effetti con la fine della Seconda Guerra Mondiale cessa un incubo anche per il jazz, che era stato oppresso o censurato dalle dittature in Italia, in Germania, in Spagna e per altri versi anche in URSS. C’erano ottime premesse affinché nei due paesi più “musicali” del mondo – l’Italia per il melodramma, la Germania per la musica sinfonica – si sviluppassero interessantissimi incroci tra jazz e classica, ma tutto venne bloccato da Mussolini e da Hitler, che ritenevano il jazz musica degenerata, negroide, selvaggia, mentre Stalin lo considerava borghese e decadente, frutto del capitalismo americano. Quindi dal 1945 il jazz in Europa diventa simbolo di una libertà finalmente raggiunta, anche se dopo un momento di euforia collettiva (con lo swing e il boogie) torna a essere una musica per conventicole. Ritorna alla ribalta nel Sessantotto anche grazie al nuovo rock (psichedelia e dintorni) quale conflitto generazionale: come gli studenti contestano i “matusa” (insegnanti, genitori e via dicendo) così i nuovi jazzmen europei con il loro free si ribellano alla “tradizione” o al passatismo del bebop, del cool, del mainstream.



GL: Il jazz in Europa diventa un simbolo di lotta al sistema, sia all’Ovest che all’Est, anche se i paradigmi della ribellione appaiono specularmente rovesciati: contro il capitalismo all’Ovest, contro il Comunismo eretto a sistema all’Est.


GM: Il jazz, come ti dicevo, è un simbolo di libertà per antonomasia, una forma d’arte da sempre invisa a ogni tipologia di totalitarismo, ragion per cui diventa un’arma “impropria” nelle mani dei giovani di tutto il mondo per contestare un sistema ingiusto e oppressivo, con la variante della maggiore o assoluta tolleranza a Ovest rispetto all’Est. Ma gli studenti che si ribellano ai carrarmati sovietici a Praga e quelli che occupano le università in Francia, Italia, Germania, Inghilterra sono in fondo identici: tutti ascoltano il nuovo jazz o le canzoni di protesta. E ovviamente i jazzisti abbracciano simbolicamente (e talvolta concretamente) la causa dei barricaderos, così come i free men afroamericani sostengono le lotte del black power e delle Black Panthers.



GL: Scrivi, testualmente che «il jazz inglese più originale è il rock.» Ci racconti il senso di questa frase che ritengo sia vera e giustificata e non, come può apparire, una provocazione?


GM: Il contributo della Gran Bretagna alla musica nella prima metà del Novecento resta irrilevante dal punto di vista delle innovazioni. Viceversa proprio dal dopoguerra i giovani di allora cominciano a far loro le musiche americane e in particolare afroamericane, trasformandole profondamente. Ma più che al jazz gli inglesi guardano alle musiche nere popolari come il blues, il soul, il r’n’b, il rock And roll che nelle loro mani diventano altro, appunto british blues, skiffle, rock-blues, progressive, Canterbury School e via via sino al club jazz o al neo soul di Amy Winehouse negli anni Duemila. E poi un anziano fotografo danese mi ha raccontato che nei primi anni Sessanta a Copenaghen, a Oslo, a Stoccolma, per i critici, i fotografi e il pubblico non c’era differenza nell’ascoltare o nel fotografare ad esempio Mingus o gli Stones, all’inizio suonavano tutti negli stessi locali o agli stessi festival. È solo nel momento in cui le band o i solisti diventano star che il rock si diversifica dal jazz: quest’ultimo resta quantitativamente un fenomeno minoritario (salvo rare eccezioni), mentre l’altro si trasforma in business miliardario (salvo ovviamente, anche qui, l’eccezione che conferma la regola).



GL: Racconti come il progressive abbia aperto al rock nuovi spazi di sperimentazione sia verso la classica che verso il jazz. Non ritieni che anche per il jazz sia stato un confronto utilissimo e, soprattutto nel nostro Paese, la porta attraverso la quale è passato a metà degli anni Settanta il grande successo di massa del jazz: tanto per fare degli esempi, diecimila persone per Archie Sheep all’Arena di Milano, tutto esaurito per Weather Report o Art Ensemble of Chicago.


GM: Certo, il prog venato di jazzrock dei Perigeo, degli Aktuala o degli Area ha avvicinato migliaia di giovani italiani al vero jazz acustico, addirttura all’avanguardia (free e dintorni). C’era anche una ragione politica o ideologica, secondo un’equazione in cui più il jazz era radicale, più i giovani di sinistra lo osannavano. Poi, in Italia è anche successa una cosa strana che ha avvicinato al jazz migliaia di rocketttari: nel luglio 1973 sulla riviera romagnola si doveva tenere una sorta di Woodstock italiana con i Deep Purple e i migliori gruppi rock angloamericani in circolazione, ma tutto saltò all’ultimo momento per via dei promoter stranieri preoccupati delle intemperanze degli autonomi. Lungo le spiagge già erano accampati centinaia di fricchettoni che non volevano tornare a casa, ma godersi un po’ di vacanze a suon di musica: è qualcuno lesse sui giornali che non lontano da lì, in Umbria, stava per iniziare (gratis) un grande festival all’aperto: e fu così che, dirigendosi in massa a Perugia e dintorni, i giovani italiani scoprirono il jazz. Sto semplificando, ma non è un caso che all’epoca per quasi tutti i Seventies in mancanza di concerti rock le nuove generazioni si riversassero sui cantautori, sul folk revival e appunto sul jazz di ogni forma e colore. Ricordo le immagini di questi miei coetanei – io me ne stavo in montagna ad ascoltare i dischi con alcuni amici e a discutere, che so, di Gato Barbieri, Soft Machine, Anthony Braxton, Franco Cerri, Andrea Centazzo – a Umbria Jazz che ballano sulle note del boogie dell’orchestra di Lionel Hampton, come fosse una rock band!



GL: In questa Europa del jazz si aggira un gigante: Django Reinardt…


GM: Sì, al momento – e son passati oltre sessant’anni dalla sua morte – resta l’unico che può annoverarsi tra i grandi del jazz americano, di stare accanto a “colossi” quali Louis Armstrong, Duke Ellington, Charlie Parker, Miles Davis, John Coltrane. Insomma Django è uno di quei dieci, massimo venti innovatori che hanno cambiato il corso della musica del Novecento. È il primo a inventare il jazz europeo, avendone piena consapevolezza, pur essendo musicalmente autodidatta e culturalmente analfabeta. Che altro dire? Il resto lo spiego nel libro o almeno ci provo…



Cfr. Michelone Guido, Jazz in Europa. Forme-dischi-identità, Casa Musicale Eco, Monza 2016, pagine 180, euro 18,00.