1917-2017 cento anni di dischi jazz con 150 musicisti e 170 dischi

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1917-2017 cento anni di dischi jazz con 150 musicisti e 170 dischi


Per festeggiare i cento anni del primo disco jazz, ho scelto 170 album firmati da 150 jazzmen: non necessariamente i capolavori assoluti o i musicisti fondamentali, ma opere e autori che meritano ancor oggi la massima attenzione.



Cannoball Adderley. Nippon soul (1963)

Doppio album per l’altosassofonista di derivazione parkeriana che in un memorabile live giapponese in sestetto dà sfogo al suo corposo hard bop dagli echi blueseggianti.



Toshiko Akiyoshi. Wishing peace (1986)

La big band leader giapponese, da tempo americana a tutti gli effetti, offre uno di migliori album per grosse orchestre degli anni Ottanta, con musicalità variegata.



Henry Red Allen. Henry Red Allen (1929-37)

Il miglior trombettista nero del dopo New Orleans, un trait d’union essenziale tra Louis Armstrong e lo swing di Roy Eldridge in un’antologia di corposo traditional.



Louis Armstrong. The complete Town Hall concert (1947)

Il grande ritorno di Satchmo alla sua vera musica, l’hot jazz con un sestetto di tutte stelle: da Teagarden ad Hackett, da Hucko a Cattlett. Istrionismo e divertimento sia alla tromba sia nel canto scat.



Louis Armstrong. Play W.C. Handy (1954)

Il trombettista rende omaggio al massimo scrittore di blues classici: Handy (1873-58) cantato e suonato all’insegna di uno splendido revival.



Louis Armstrong. The good Book (1958)

“Se tu non credi in Dio, non puoi suonare nè capire il jazz”. Così afferma Satchmo. E così interpreta magistralmente una dozzina di vecchi spiritual. Commovente.



Derek Bailey. Solo guitar (1971)

Il radicalismo allo stato puro: tutto ciò che si può trarre da una chitarra ben oltre il muro del suono, da un teorico e virtuoso della improvised music inglese. Free al punto di nonritorno (grado zero).



Mildred Bailey. Rockin’ chair (1943-51)

La miglior cantante bianca dell’era swing in una raccolta in parte d’epoca posteriore che mette in luce il suo raffinato dolce vocalismo.



Chet Baker. Sings (1953-56)

Dopo il successo con Mulligan, il trombettista bianco prova a cantare seguendo le linee timbrico-melodiche del suo suo strumento in una serie di celebri standard di argentea rarefazione cool.



Chet Baker. Peace (1982)

Gli anni del ritorno e della maturità sono contrassegnati da una vena lirica ancor più intensa e poetica, qui risaltata benissimo anche dall’accompagnamento di batteria, contrabbasso e vibrafono.



Chet Baker & Mariachi Brass. In the mood (1966)

Per molti il più brutto album jazz di un grande solista: di fatto cerca qui di rincorrere il successo alla Herb Alpert, all’epoca di moda col sound messicaneggiante.



Charlie Barnet. Drop me off in Harlem (1942-46)

Il più importante leader di orchestre bianche negli anni di guerra, che oltre ad uno swing vivacissimo, rivela altresì una forma smagliante nel ruolo di sassofonista.



Kenny Barron. Wanton spirit (1994)

Eccellente pianista tra bop e mainstream, arriva a incidere dischi come titolare oltre i quarant’anni, dimostrando padronanza assoluta del gioco tastieristico nel formula del trio (Charlie Haden e Roy Haynes).



Count Basie. Atomic Mr. Basie (1957)

Il disco più bello della rinascita della big band del pianista ‘conte’: vecchi e nuovi (Newman, Jones, Foster) solisti nel segno del blues, dello swing e di Kansas City, con l’energia del nuovo mainstream.



Count Basie & Arthur Prysock. Arthur Prysock / Count Basie (1966)

Non è un mistero che il Conte prediliga i cantanti maschi, speso parte integrante dell’orchestra, ma quest’incontro con il soul man è un po’ sui generis.



Count Basie & Zoot Sims. Basie and Zoot (1975)

La splendida vecchiaia del conte in quartetto con un ex del cool, ora semplicemente grande solista moderno. Ottimo l’accompagnamento (John Heard e Louis Bellson), con lo zampino del produttore Norman Granz.



Tony Bennett and Bill Evans. Together again (1976)

Il crooner prediletto da Sinatra a tu per tu col grande pianista: un incontro tardivo per un duo che mette in luce la duttilità di entrambi: non solo un cantante da night il primo, anche splendido accompagnatore il secondo.



Bunny Berigan. Bunny Berigan 1938-1942 (1938-42)

Tra le orchestre bianche in luce durante la swing craze c’è anche questa di un trombettista memore delle lezioni di ritmo e comunicativa dei leaders Benny Goodman e Tommy Dorsey coi quali lavora in precedenza.



Art Blakey. Buhaina’s delight (1961)

Sono tantissimi i suoi dischi meritevoli, ma questo, oltre i brani, offre la formazione più agguerrita dei Messengers: Hubbard, Shorter, Fuller, Walton e Merritt!



Paul Bley. Ramblin (1966)

In trio con Mark Levinson (contrabbasso) e Bary Altschul, il segno fa conoscere il pianista canadese al mondo intero, svelando un jazzman attratto dal free e dall’impressionsimo.



Blue Notes. Live in South Africa (1964)

Il disco prima dell’esilio coi futuri leaders del jazz ancestrale: dal bianco Chris McGregor ai neri Mongezi Feza e Dudu Pukwana. Un quintetto tra folk e hard bop.



Anthony Braxton. Creative Orchestra (Koln) (1978)

Le teorie della scuola di Chicago applicate alla big band, con slanci passionali, recuperi swing e tanta avanguardia persino dal sapore matematico.



Wilem Breuker. Live in Berlin (1978)

L’avanguardia si diverte. Un disco all’insegna della trasgressione e dell’umorismo, dove la big band va oltre la musica per farsi teatro (che su vinile si perde, ovviamente).



Clifford Brown. Memorial album (1953)

Le incisioni Blue Note in compagnia di tanti ‘duri’, collaboratori ideali per chi può definirsi il poeta dell’hard bop. Due formazioni, stessa grinta jazzistica.



James Brown. Live at Apollo (1963
Il cantante è il miglior rappresentante della cosiddetta soul music degli anni Sessanta: le performance dal vivo sono memorabili, come questa nel tempio della moderna black music.



Marion Brown. Why not? (1966)

Sensibile e dimenticato musicista free, al sax alto mostra rabbia e lirismo, con l’efficace ritmica di Stanley Cowell, Sirone, Rashied Alì.



Gary Burton. Hotel Hello (1974)

Musicista versatile con ogni tipo di formazione orchestrale, il vibrafonista bianco però rivela soprattutto nei duetti un geniale cristallino virtuosismo: qui è col basso di Steve Swallow.



Charlie Byrd. Bossa nova pelos passaros (1962
Il chitarrista bianco statunitense che lancia la moda del jazz samba o bossa nova in Nord America, col trio nel suo disco carioca meno contaminato e più essenziale.



Donald Byrd. Black Byrd (1974)

Già protagonsita dell’hard bop, il trombettista nero si presta al jazzrock con un disco che oggi viene considerato un antesignano dell’acid jazz per il carattere funky e ballabile.



Benny Carter. Elegy in blues (1994)

Quasi novantenne, il pluristrumentista che attraversa quasi l’intera storia jazzistica, si ritrova ancora in forma smagliante all’insegna di un jazz vigoroso e moderno, senza barriere o etichette.



Serge Chaloff. Blue Serge (1956)

Uno dei capolavori del cool jazz, da parte di un sax baritono precocemente scomparsa, che si presenta come l’alternativa a Mulligan, per vai di un approccio di vigore allo strumento.



Charlie Christian. At Minton’s Playhouse (1941)

Ecco le famose registrazioni pirata con le quali si fa iniziare il jazz moderno. Un amatore capta infatti le jam session, in cui le improvvisazioni del chitarrista inventano un linguaggi, uno stile, un mondo.



Clarinet Summit. Southern bells (1987)

Quattro clarinettisti di svariate esperienze danno vita ad una musica in grado di fondere free e divertimento, passato ed attualità: sono Alvin Batiste, John Carter, Jimmy Hamilton, David Murray.



Kenny Clarke. Pieces of time (1983)

Il padre del ritmo moderno e della percussione bebop accanto a tre percussionisti free; una riunione storica, nel ricordo dell’Africa, con Andrew Cyrille, Don Moye e Milford Graves.



Rosemary Clooney. With love (1980)

La dolce cantante bianca trova una seconda giovinezza sempre con un repertorio di standard, ma con veri jazzisti (sia pur quasi di neo swing) che l’accompagnano.



Ornette Coleman. The skies of America (1971)

L’opera più complessa dello storico freejazzman: Ornette dirige compone una partitura per orchestra dagli echi third stream, ma in profonda negritudine.



Ornette Coleman. In all languages (1987)

Un confronto dialettico tra i tanti modi di fare musica del geniale altosassofonista: da una parte i brani col riesumato storico quartetto, dall’altra gli stessi reinterpretati dal gruppo armolodico o free funk. Geniale, come sempre.



Ornette Coleman & Joachim Kuhn. Colors (1996
Live dove l’alto sax dispensa la sua arte a piene mani assecondato e supportato dal pianismo del tedesco: nella non facile arte del duo: e su base sintetizzano diversi linguaggi.



John Coltrane. Giant steps (1959)

Forse la prima vera opera coltraniana. Il maestro in quartetto lascia ormai alle spalle l’hard bop e si proietta verso un modalismo che già prelude ad un’ennesima svolta artistica.



John Coltrane. Afro blue impressions (1963)

Anche se postuma, questa registrazione dal vivo è importante perché offre l’immagine del Coltrane concertista, improvvisatore assoluto, in un climax di fortissima tensione emotiva.



John Coltrane. Ascension (1965)

La svolta free: Coltrane arriva alla new thing ed è subito capolavoro. Un inno mistico con una quasi big band alle soglie del rumore, ma alla ricerca della purezza del suono e dell’anima.



Eddie Condon. Dixieland all stars (1939-46)

Fondamentale come organizzatore, il chitarrista bianco fin dagli anni Venti è noto per entusiasmo e dedizione; non a caso diverrà il principale divulgatore del dixieland revival, come mostra questa splendida antologia.



Chick Corea. Return to forever (1972)

Questo disco che porta il nome del futuro gruppo jazzrock, vede il pianista alle tastiere in compagnia di Joe Farrell, Stanley Clarke e dei brasiliani Airto Moreira e Flora Plurim. Sofisticata fusion ante litteram.



Bob Crosby. Bob Crosby’s Bob Cats (1937-39)

Il fratello del celebre Bing durante la swing craze rema controcorrente e propone una musica fortemente imparentata con il dixieland sia con la big band sia soprattutto nei piccoli gruppi (come questi).



Miles Davis. Birth of the cool (1949-50)

Le prime storiche incisioni a nome del giovane trombettista: una svolta epocale per idee, arrangiamenti, sonorità, freschezza, pulizia formale, freddezza esecutiva.



Miles Davis. Porgy and Bess (1958)

Il melodramma di Gershwin rivisto ed arrangiato da Gil Evans per big band e tromba solista: gli assolo senza vibrato di Miles fanno il resto (e la differenza).



Miles Davis. Live at the Plugged Nickel (1965)

Il miglior quintetto davisiano per compattezza e longevità in un album live, dove il modalismo viaggia molto alto: Wayne Shorter, Herbie Hancock, Ron Carter, Tony Williams e Miles eccezionali.



Paul Desmond & Gerry Mulligan. Two of a mind (1962)

Il sax alto di Brubeck incontra il grande baritonista per varie sedute pianoless, che evidenziano sia lo stile di entrambi sia le capacità di interagire reciprocamente. Un cool d’autore.



Billy Eckstine. At Basin Street East (1961)

Il cantante a suo tempo leader della prima orchestra boppistica, torna ad esibirsi come moderno vocalist accompagnato dalla big band diretta da Quincy Jones, con eccellenti solisti.



Roy Eldridge. Heckler’s hop (1936-39)

Il trombettista nero che supera il traditional e quasi anticipa il bebop, nelle prime registrazioni a suo nome, in cui già vien fuori un solismo innovatore, entro la gaiezza dello swing.



Duke Ellington. The Blanton-Webster band (1940-42)

La grande orchestra in cui militano il bassista Jimmy Blanton e il tenorista Ben Webster: per molti la quintessenza dell’arte ellingtoniana e un manifesto di ideale negritudine.



Duke Ellington. At Newport (1956)

L’album della rinascita della big band, quando dal vivo si riscopre che il Duca è ancora il più grande: un assolo del sax Paul Gonsalves resta memorabile.



Duke Ellington. The Ellington suites (1959-72)

Una raccolta di brani di ampio respiro, dalla Queen’s Suite alla Uwis Suite, in cui il Duke tenta un approccio più classico e serioso alla musica afroamericana, con risultati come sempre fascinosi.



Bill Evans. At Montreux Jazz Festival (1968)

In trio, assieme a Eddie Gomez e Jack DeJohnette, è tra i migliori jazz album dal vivo di ogni tempo, fondamentale per poter capire cosa rappresenti l’interplay tra pianoforte, contrabbasso, batteria.



Gil Evans. Svengali (1973)

La svolta jazzrock del grande arrangiatore bianco: una big band mista che non rinuncia ai suoni orchestrali, ma vi aggiunge timbriche rock, modelli esotici, echi avanguardistici.



Tal Farlow. At Ed Fuert’s (1956)

Chitarrista generoso e veloce, si impone quale solista anche oltre il cool jazz, grazie ad un’esemplare inventiva melodico-armonica che quest’album live rivela accuratamente.



Stan Getz. Anniversary (1987)

Quasi un riassunto magistrale della sua carriera jazzistica, il tenorista bianco propone un solismo impeccabile, col sostegno di una ritmica eccellente (Baron, Reid, Lewis).



Stan Getz & Joao Gilberto. Getz/Gilberto (1964)

Il capolavoro della bossa nova: l’incontro fra il sax tenore statunitense e il chitarrista brasilero, con l’aggiunta del pianista e compositore Antonio Carlos Jobim. Suadente e raffinato.



Stan Getz & Luiz Bonfa. Jazz Samba Encore (1963)

Pochi mesi prima dell’exploit commerciale con l’album assieme a Gilberto, il tenorista flirta comunuqe con la bossa nova, registrando assieme a un altro protagonista del giovane sound carioca.



Benny Golson. In Paris (1958)

In questo disco francese, il tenorista mette in mostra il corposo solismo e la fluida vena di autore prolifico di temi hard bop.



Louis Moreau Gottschalk. Piano music (1845-55)

Un autore classico, il primo nero (creolo) a dedicarsi alla musica colta, con brani pianistici ispirati a Chopin, ma su temi folk precipuamente afroamericani.



Bob Graettinger. City of Glass (1948)

Una suite in diversi movimenti, che per alcuni prelude alla third stream, per altri invece è la musica ideale per essere interpretata dall’orchestra di Stan Kenton, che vi lavora in maniera egregia.



Stéphane Grappelli. Young Django (1979)

Dei molti incisi dal violinista, questo è un tributo palese alla grandezza di Reinhardt, con una formazione di giovani che pure nell’assetto omaggia lo swing-gitan: Catherine e Coryell alle chitarre, Pedersen al contrabbasso.



Wardell Gray. Memorial (1949-52)

Uno dei tanti boppers irregolari, che muore per droga a soli trentatré anni, nelle poche registrazioni con piccoli gruppi riesce comunque a brillare come stella del sax tenore.



Johnny Griffin. Sextet (1958)

Altro grande tenorista di scuola hard bop, dalla lunga carriera regolare, in quest’album si presenta con un sestetto chicagaono eccellente, grazie a Byrd, Adams, Drew, Ware e Jones.



Jim Hall. Live at Town Hall (1990)

È un guitar summit per celebrare dal vivo i sessant’anni del chitarrista bianco: con lui i colleghi Scofield, Abercrombie, Goodrick, Bernstein e il vibrafono di Gary Burton. Hall sovrasta tutti per feeling e lirismo.



Herbie Hancock. Maiden voyage (1965)

Uno dei più bei dischi di jazz modale di un pianista all’epoca nel gruppo di Miles, del quale ripete quasi in toto il celebre quintetto, con Hubbard al posto di Davis.



Herbie Hancock. Headhunters (1973)

La svolta elettrica commerciale, con un disco che darà il nome ad un gruppo specializzato appunto in un jazzrock molto ballabile e funkeggiante, con lunghi brani ipnotici.



Herbie Hancock & Foday Musa Suso. Village life (1985)
Hancock va oltre il jazzrock, tentando esperimenti ante litteram di world jazz elettronico dal forte sapore ipnotico con un griot del Gambia che suona la kora.



Coleman Hawkins. The Hawks flies high (1957)

Nell’immensa discografia del tenorista, queste incisioni in settetto che alternano swingers (Jo Jones) a boppers (Hank Jones), sono forse per esemplarità le più significative di un mainstream aggiornatissimo.



Joe Henderson. So near, so far (Musings for Miles) (1992)

Riscoperto nei Novanta, il tenorista nero rende omaggio a Miles col suo hard bop personalissimo, maggiormente evidenziato da una ritmica di ex davisiani (Scofield, Holland, Foster).



Johnny Hodges. Used to be Duke (1954)

Un omaggio al suo maestro da parte dell’orchestrale più ellingtoniano, qui alla prese con un combo che oltre gli uomini del Duca, comprende pure un giovane Coltrane.



Billie Holiday. Last recordings (1959)

La voce non è più quella d’un tempo: ma l’emissione roca, talvolta afona e incerta non manca di fascino, creatività, appeal. Con orchestra di fiati e di archi.



Freddie Hubbard. Hub-tones (1962)

Altro grande della tromba hardboppistica, qui colto in uno dei classici vigorosi album Blue Note, in compagnia di Spaulding, Hancock, Workman, Jarvis. Quintetto accattivante.



ICP Orchestra. Herbie Nichols / Thelonius Monk (1984-87)

La più trasgressiva delle orchestre free europee, incide il proprio duplice tributo, mettendo postmodernamente a confronto le composizioni di due grandi pianisti degli anni Cinquanta.



Milton Jackson. Opus de jazz (1955
Contemporaneamente alla condizione del modern jazz quartet, il vibrafonista nero non si scorda di essere un jazzman dai trascorsi boppistici, in un quintetto che tra gli altri annovera Frank Wess ai fiati.



Illinois Jacquet. The comeback (1971)

Il ritorno (anche se il titolo si riferisce al titolo di un brano) al jazz di uno honkers, già tentato dal soul, ma qui alle prese con il feeling di Milt Buckner all’organo e Tony Crombie alla batteria.



Ahmad Jamal. Freeflight (1971)

Uno dei musicisti preferiti da Miles Davis, artefice di un pianismo educato e soffuso, che dà il meglio di sé in trio e dal vivo (come qui dal Festival di Montreux).



Harry James. Bandstand memories (1938-48
Già trombettista di Benny Goodman, diventa nella swing era un musicista record in quanto a vendite di dischi con la sua big band, grazie a celebri brani posticciamente jazzati. In mezzo al kitsch alcune cose egregie.



Jazz At The Philarmonic. The first concert (1944)

Il primo concerto JATP voluto e ideato da Norman Granz comprende, come anche in seguito, lunghe jam session con solisti di pregio (Jacquet, Cole, Paul) non più swing, non ancora bebop.



Keith Jarrett. Expectations (1971)

La summa del primo Jarrett, con un jazz di sintesi tra gospel, rock, latin, modale, hard bop. Sestetto con Dewey Redman, Sam Brown, Charlie Haden, Paul Motian, Airto Moreira più fiati e archi.



Keith Jarrett. Bye bye blackbird (1991)

L’omaggio al Miles Davis modale col trio jazz più affiatato, uno dei migliori di tutti i tempi: perfetto interplay tra Jarrett, Gary Peacock, Jack DeJohnette, virtuosistici fino alla perfezione.



Keith Jarrett & Charlie Haden. Last dance (2014)

Il pianista ritrova il vecchio compagno di tante avventure: e registra in casa, dopo Jasmine, questo seguito sempre al’insegna di un jazz cameristico e per molti versi crepuscolare.



Leroi Jenkins. Urban blues (1984)

Il violinista dell’avanguardia posfree chicagoana registra dal vivo allo Sweet Basil di New York un concerto con due violini, due chitarre, basso e batteria, recuperando la tradizione all’interno dello sperimentalismo.



Jay Jay Johnson. Jay and Kai (1947-54)

Il maggior trombonista moderno, tra gli alfieri del bebop, si confronta a più riprese con il collega bianco, a sua volta raffinato solista cool: raccolta di 78 giri delle prime collaborazioni tra i due eccellenti strumentisti.



Bunk Johnson. Last testament (1947
Trombettista nero tardivamente scoperto e poi divenuto tra i protagonisti del revival anni Quaranta, in questo suo ultimo album suona veramente (e liberamente) all’antica maniera.



James Pete Johnson. Harlem stride piano (1921-29
La raccolta delle migliori incisioni in solo e in gruppo del grande pianista stride, che mostra anche ottime doti di leader e compositore.



Thad Jones & Mel Lewis. Body and soul (1978
La migliore big band degli anni Sessanta e Settanta, l’unica stabile e longeva nel genere hard bop, infarcita di prelibati solisti, alle prese con standards e originals.



Scott Joplin. Treemonisha (1911)

Il melodramma rag orchestrato negli anni Settanta da Gunther Schuller: un’opera sorprendente non capita all’epoca, che procura a Joplin la rovina economica e un drammatico esaurimento.



Barney Kessel. The poll winners (1957)

Già coi boppers, il chitarrista bianco si produce in un elegante trio, con Ray Brown al basso e Shelly Manne alla batteria, con perfetto interplay e lunghe formali improvvisazioni.



Roland Kirk. Rip, rig and panic (1965)

Il primo bizzarro strumentista nella storia del jazz col suo album più bello: tra passato e futuro, alle ance, Kirk, a suo modo rilegge swing, bebop, free e magari anticipa funk e fusion. Il quartetto con Jaki Byard al piano.



Lee Konitz. Lone-Lee (1974)

L’altista bianco si presenta con quella che forse è da ritenersi la sua opera più impegnativa: un’improvvisazione di quaranta minuti per solo sassofono: virtuosismo, raffinatezza, avanguardia.



Gene Krupa & Buddy Rich. Krupa and Rich (1955)

Nel solco del Jazz at the Philarmonic, una drums battle tra due maestri del ritmo swing, ben supportati dallo squadrone di Grantz: un nonetto con Gillespie, Jacquet, Peterson, Ellis, tra gli altri.



Lambert, Hendricks & Ross. The swingers! (1958-59)

Il miglior trio di jazz vocale di tutti i tempi: una gamma di eccitanti standards reinterpretata con lo humour e le finezze del vocalese, dove il canto nasce dalla trascrizione degli assolo sassofonistici.



Eddie Lang & Joe Venuti. Great original performances (1926-33)

Quasi tutte le incisioni in duo o con supporto ritmico dei celebri italoamericani (Lang si chiama Salvatore Massaro) in Chicago style: un jazz cameristico per chitarra e violino che ancor oggi sorprende per il fresco dinamismo.



John Lewis. Private concert (1990)

Il leader del Modern Jazz Quartet, fin da quando accompagna al pianoforte i celebri boppers, è da sempre un eccellente virtuoso: come solista sa ricavare dalla tastiera un originale sound postboppistico.



Jimmy Luncenford. Jimmy Luncenford 1930-1934 (1930-34)

Dell’orchestra di colore che viene considerata la migliore della big band era, optiamo per un’antologica che raccoglie una serie di gemme che addirittura precedono la follia swing.



Mahavishnu Orchestra. Birds of fire (1972)

L’inglese John McLaughlin forma in America un quintetto jazzrock che per tre anni non ha rivali tranne Davis e i Weather; suoni elettronici dalla timbrica possente grazie a ritmi, tastiere, violino e alle chitarre del leader.



Albert Mangelsdorff. Trilogue (1976)

Il miglior trombonista contemporaneo raffronta il suo free con una ritmica fusion (Jaco Pastorius al basso, Alphonse Mouzon alle percussioni) in un set dal vivo a Berlino di pulsante avanguardismo.



Manhattan Transfert. Vocalese (1985)

Famoso quanto un gruppo pop, il quartetto bianco (due donne, due uomini) di sole voci riscopre, come annuncia il titolo, una tecnica quasi dimenticata, per aggiornarla ai gusti attuali, non senza qualche finezza.



Herbie Mann. Memphis underground (1968)

Flautista già attivo ai tempi del cool, vicino pure al latin jazz, con quest’album dà vita forse suo malgrado alla moda del jazzrock, con ritmi giovanili ed un solismo accattivante.



Shelly Manne. Live at the Manne Hole (1961)

Emerso con lo swing, fautore del west coast jazz, il batterista bianco si concede ogni tanto qualche impennata hard bop, grazie ad un quintetto colto dal vivo al Black Hawks, in cui spiccano Candoli, Kamuca e Freeman.



Carmen McRae & Betty Carter. Duets (1987)

Due cantanti, la prima bianca, la seconda nera, già attive e famose dagli anni Cinquanta, dopo qualche oblio, tornano alla grande negli anni Ottanta, registrando assieme un lavoro intelligente, ben supportate dal classico piano jazz trio.



Glenn Miller. The genius of Glenn Miller (1939-44)

Il trombonista bianco è tuttora lo swinger più amato nel mondo intero. Ma al posto di stucchevoli rifacimenti tecnicamente perfetti (ma senza feeling), godiamoci le versioni originali, nel ricordo di tempi ormai lontani.



Charles Mingus. Pithecanthopus erectus (1956)

Un quintetto che sembra un’orchestra grazie all’intelligenza compositiva della lunga suite che dà il titolo all’intero album. Da non trascurare anche gli altri brani, per farsi un’idea dell’approccio di Mingus alla musica in ottica multiculturale.



Charles Mingus. New Tijuana moods (1957)

Un tributo sui generis alla cultura ispanoamericana, da parte del contrabbassista che unisce colori espressionisti a foga jazzistica, con l’abilità del sommo orchestratore.



Charles Mingus. Oh yeah (1961)

Forse l’album più ‘sporco’ del grande musicista, in cui i solisti (Kirk, Ervin, Knepper) paiono gridare, quasi rappare, spingendosi verso il free e al contempo guardando alle radici blues.



Thelonius Monk. Genius of modern music (1947-52)

Le prime sedute Blue Note in cui il pianista funge da leader e titolare, con una schiera di agguerriti boppers fedeli però alle sue personalissime sonorità.



Thelonius Monk. Blue Monk (1954)

In solo, trio, quintetto la riscoperta del pianista nero, che, dimenticato durante il cool jazz, torna alla grande e anticipa il nascente hard bop con asprezze stilistiche ineguagliabili.



Thelonius Monk. Alone in san Francisco (1959)

Per altri studiosi il vero Monk è qui, a tu per tu con la tastiera: in effetti per meglio gustare le composizioni o le parafrasi di celebri standard questo (come altri dischi) in solo è formidabile.



Wes Montgomery. Incredible jazz guitar (1959)

Tra i primi incisi a nome del chitarrista, è un classico quartetto di hard bop soffuso grazie ai timbri e alle dinamiche dello strumento e della preziosa sezione ritmica (Tommy Flanagan, Percy e Tootie Heath).



Lee Morgan. The gigolo (1965
Forse il miglior trombettista dell’hard bop degli anni Sessanta, riesce a coniugare un potente lirismo con la spettacolarità dei ritmi funky alla Silver o alla Blakey.



Gerry Mulligan. Quartets with Chet Baker (1952-57)

Il pianoless, ovvero un quartetto senza il sostegno del pianoforte, ma dove i solisti (tromba e baritono) intrecciano polifonie e improvvisazioni col solo aiuto di basso e batteria. Geniale e raffinato, tipicamente cool.



Gerry Mulligan. Pleyel concerts (1954)

Un altro splendido esempio di pianoless, dal vivo a Parigi, ma Baker è sostituito dal trombonista Bob Brookmeyer e le atmosfere si fanno al contempo più sciolte e più grintose.



Gerry Mulligan. Age of steam (1971)

Nel periodo maggiormente difficile della storia jazzistica, anche il baritoni sta in crisi si fa tentare dal rock, in un album fusion curioso, vario, singolare: un unicum in ogni senso.



Oliver Nelson. The blues and the abstract truth (1961)

Insigne arrangiatore nella fase di passaggio dal moderno al contemporaneo: pochi gli album a suo nome, ma questo in sestetto con musicisti eterogenei (tutti grandissimi da Hubbard a Dolphy sino a Bill Evans) gli rende giustizia.



Phineas Newborn. Great jazz piano (1961-62)

Assieme ad Herbie Nichols ed Helmo Hope fra i tastieristi neri meno prolifici e forse per questo più sottovalutati del decennio: Newborn si mostra originalissimo allievo più di Powell e meno di Monk (a differenza degli altri).



Red Nichols & Miff Mole. Original performances (1925-30)

Trombettista il primo, trombonista il secondo, danno vita a metà dei roaring twenties alle session più indiavolate di jazz bianco, con un dixieland elegante che concilia irruenza e virtuosismo.



Jimmy Noone. Apex blues (1928-30)

Uno dei migliori clarinettisti dell’intera storia jazzistica: portavoce dell’uso creolo dello strumento, sa far sentire il legno come si dice in gergo. Ed il suo vibrato contropunta il sound tradizionale in varie formazioni.



Original Dixieland Jass Band. In England (1919-20)

La band famosa soprattutto per aver inciso il primo disco jazz nel 1917, compie subito dopo una fortunata tournée britannica, dove registra anche alcuni 78 giri con l’aggiunta del pianista londinese Billy Jones.



Charlie Parker. On Verve (1946-54)

Un’antologia che spazia cronologicamente sull’intera carriera musicale, fino a comprendere alcuni brani con sezioni d’archi (dall’album Parker With Strings) che curiosamente l’autore predilige tantissimo.



Charlie Parker. Bird at the Roost (1948)

Anche dal vivo nella formazione congeniale del quintetto bebop, l’altosassofonista mostra le unghie, improvvisando sui temi da lui creati sulle parafrasi di celebri standards.



Charlie Parker. The greatest jazz concert ever (1953)

Da alcuni ritenuto la summa, da altri il canto del cigno del bebop, in ogni caso è senza dubbio la formazione ideale dell’epoca stessa. Album noto anche come Jazz at Massey Hall (di Toronto) o a nome di The Quintet.



Art Pepper. Straight life (1979)

Il ritorno sulle scene dello sfortunato sax alto e tenore, si caratterizza per una verve solistica ancor più intensa ed evoluta, con l’ulteriore conforto di una sezione ritmica esemplare (Flanagan, Mitchell, Higgins, Nash).



Oscar Peterson & Roy Eldridge. Oscar Peterson & Roy Eldridge (1974)

Grandi solisti mainstream a confronto, a tu per tu il pianista e il trombettista per una serie di duetti di straordinaria intensità e di perfetto virtuosismo nei canoni ovviamente di uno swing riveduto e corretto.



Jean-Luc Ponty. Open strings (1971)

La promessa del violino e del jazz francese prima della banale svolta fusion; una musica tesa, dura, impegnativa, alle soglie del free, in un quintetto d’eccezione: Kuhn, Catherine, Warren, Johnson.



Michel Portal & Richard Galliano. Blow Up (1996)

Una via europea al jazz, indipendente, autoctona, vitale, perspicace con un suono molto evocativo, che rappresenta un viaggio attraverso la tradizione dei trovatori della Langue d’Oc.



Bud Powell. A portrait of Thelonius (1961)

Il più grande pianista bebop torna in piena attività solistica, dedicando un album al collega per eccellenza, di cui si considera umilmente un allievo. Ma le versione powelliane non hanno nulla da invidiare alle originali.



Don Pullen. Healing force (1976)

Già al seguito di Mingus, ma vicino ai free men, nel suo primo disco per solo piano si rifà inevitabilmente a Cecil Taylor, con l’aggiunta di maggiori echi della tradizione blues e bebop.



Max Roach. Percussion bitter sweet (1961)

Dopo la Freedom now suite un altro similare concept-album per un jazz impegnato o politico, ferma restando la piena musicalità dell’esito finale, con nuovi moderni solisti (Dolphy, Jordan, Waldron).



Max Roach. Drums unlimited (1966)

Progetto unitario che vede altenarsi tre pezzi per sola batteria ad altrettanti per un dinamico sestetto. Un tributo alla storia della percussione afroamericana.



Max Roach. To the Max! (1990-91)

Un omaggio alla recente carriera del batterista, che compone balletti, scrive opere dal respiro classico, organizza sedute per sole percussioni, lavora anche con la solita jazz band.



Shorty Rogers. The big Shorty Rogers express (1953-56)

Il trombettista bianco è il principale artefice del west coast jazz: soavità e leggerezza per conciliare le innovazioni con lo swing alla Basie.



Sonny Rollins. The freedom suite (1957)

Il primo manifesto del jazz politico, al di là del titolo, è in sostanza una lunga improvvisazione su un’unica facciata del disco originario, che permette a Rollins di evidenziare un potente sassofonismo.



Sonny Rollins. East Broadway rundown (1966)

Un ritorno in scena che si esterna con scelte difficili e talvolta contraddittorie: incerto se abbracciare il free, ala fine preferisce dar sfogo all’istinto di improvvisatore, mirabilmente proteso a diventare l’alter ego di Coltrane.



Sonny Rollins. The cutting edge (1973)

L’ennesimo e definitivo ritorno sulle scene è stavolta inizialmente dettato dall’avvicinamento alle formule jazzrock: ma davanti alla ritmica giovanilista sovrasta come sempre la torrenziale voce del sax tenore.



Jimmy Rushing. The you and me that used to be (1971)

Ultimo disco per il cantante blues dell’orchestra basiana: anche senza il Conte dimostra il suo valore, con l’appoggio di grandi solisti mainstream (tra cui il violinista Ray Nance).



Pee Wee Russell. We’re in the money (1953-54)

Clarinettista bianco che da Chicago arriva persino a duettare con Monk. In album un fresco dixieland con una front line di vecchie glorie (Dickenson al trombone, Cheatham o Davison alla tromba).



Gunther Schuller. Jazz abstraction (1959-61)

Il meglio della third stream music, ovvero tra jazz e classica, con opere di Jim Hall e dello stesso Schuller, che orchestra e dirige servendosi di ottimi soliti (Coleman, LaFaro, Dolphy, Evans, ecc.).



Artie Shaw. Begin the beguine (1938-41)

La canzone che dà il titolo all’album è uno dei simboli tanto della swing era quanto del clarinettista che con la sua big band ha fatto ballare una nazione e una generazione (anche con altri brani lenti e veloci).



Archie Shepp & Horace Parlan. Goin’ home (1977)

La rabbia del più ideologico dei freejazzmen si stempera in una rilettura del passato afroamericano: in duo con l’anziano pianista (già bebop per con Parker), una dozzina di vecchi spiritual al sax tenore.



Wayne Shorter. Supernova (1969)

Un disco poco prima di fondare i Weather Report a dimostrazione di come si poteva coniugare il nascente jazzrock, con l’hard bop e la sperimentazione, nell’ottica del virtuosismo e della piacevolezza.



Horace Silver. Song for my father (1963)

L’album più bello di un pianista discografica incostante: soul, funky s’incrociano con l’hard bop ortodosso, grazie al superbo interplay tra il sax di Joe Henderson e la tromba di Carmell Jones.



Martial Solal. The solo Solal (1978)

Tra i grandi musicisti del jazz europeo, Solal esprime le doti eccezionali di pianista e improvvisatore quando si trova, come in questo caos, a tu per tu con la tastiera. Sound attuale, moderno, europeo.



Sonny Stitt. Plays Bird (1963)

Di questo sassofonista si dice da sempre che sia al tenore l’erede di Parker (che è altista). Il suo tributo conferma tale assunto, mostrando un solista in vena, che ha interiorizzato la lezione del maestro.



John Surman. Adventure playground (1991)

Infaticabile sperimentatore, si trova a suo agio pure quando il contesto sembrerebbe meno aperto e più classico: ma in quartetto con Paul Bley, Gary Peacock, Tony Oxley è difficile perdere colpi.



Art Tatum. Group masterpieces (1954-56)

La raccolta della maturità che riguarda le collaborazioni in trio e quartetto con grandi musicisti: Tatum divide onore e gloria con Carter, Eldridge, Hampton, DeFranco, Webster, ecc.
Art Tatum. Standards (1935-43)

Il grande Tatum è già tutto qui: in piena swing craze, al piano solo, si concerta a lavorare su normali canzonette fino a renderle irriconoscibili grazie a variazioni ricchissime, con la tecnica di un solista classico.
Art Tatum / Lionel Hampton / Buddy Rich. The Lionel Hampton Art Tatum Buddy Rich Trio (1955)

Insolito esperimento del pianista a fine carierea che dialoga con vibrafono e batteria di altri deu maestri all’insegna di uno swing perenne.



Jack Teagarden. The indispensable (1928-57)

Un’esauriente antologia della tappe principali di una lunga carriera, che vede il trombonista bianco tra i fautori del Chicago style, poi in mezzo allo swing, a fianco di Armstrong, protagonista del revival.



Toots Thielemans. Do not leave me (1986)

Il belga, col passare degli anni, è diventato meno dispersivo e più concentrato sugli aspetti solistici dello strumento prediletto, l’armonica a bocca, da lui trattata in chiave jazzistica, tra moderno e mainstream.



Sir Lucky Thompson. Accent on tenor sax (1954)

Cresciuto in epoca bebop, è da ritenersi piuttosto allievo del classicismo alla Lester Young e Coleman Hawkins. Nel disco infatti non rinuncia ad un approccio gentile alla materia sonora, tra swing e mainstream.



Carl Tjader. Soul sauce (1964)

Tra i pionieri di una fusione autentica tra jazz moderno ed esperienza latinoamericana, il vibrafonista talvolta eccessivamente versatile, qui non rinuncia al discorso hardboppistico, sia pur a ritmo caliente.



Mel Tormé. The Ellington & Basie songbooks (1960-61)

Inferiore solo a Sinatra, il crooner bianco eccelle nei repertori sia dei songwriters sia dei band leader: un omaggio un po’ ovattato a due geni dell’arte nera.



Lennie Tristano. The complete Lennie Tristano (1946-47)

Il primo Tristano, in trio con Bauer alla chitarra e Lombardi o Leininger al basso: l’inizio del cool jazz più autentico e perfezionista, in essenziali interplay.



Big Joe Turner. Featuring Slam Stewart & Jo Jones (1971-74)

Una rimpatria tra vecchi swingers, due vocalists (Turner anche pianista, Stewart cantante) con un paio di batteristi (oltre Jones in alcuni brani c’è pure Panama Francis). Sana allegria fra boogie e blues.



McCoy Tyner. Soliloquy (1991)

È il terzo album solo per un pianista dalla carriera eccezionale, con John Coltarne fin dagli anni Sessanta. E coltraniano è il suo approccio immaginifico alla tastiera. Dal vivo alla Merkin Hall newyorchese.



Sarah Vaughan. Live in Japan (1973)

La cantante di jazz moderno per antonomasia. Un disco della maturità con il supporto minimalista del trio a rendere ancor più musicale e profonda una voce bellissima.



Joe Venuti. The Incredible Joe Venuti (1971)

Merito del ritorno al jazz del primo grande violinista (di origini italoamericane) è dovuto anche al nostro Paese dove registra diversi album tra cui questo primo con l’Orchesrtra di Gil Cuppini modernamente orientata.



Mal Waldron. Update (1986)

Sofisticato accompagnatore e intimistico solista dal tocco umbratile: come altri suoi dischi, si avverte un clima di solitudini, emotività, silenzi.



Fats Waller. The Joint Is Jumpin’ (1929-39)

Temperamento estroverso, divertente, autioironico, il pianista con bombetta e sigaro in bocca negli anni Trenta propone una serie di incisioni con un piccolo combo, dal successo immediato.



Dinah Washington. Dinah! (1955)

La cantante rappresenta forse il punto di massima convergenza tra il jazz e il r’n’b negli anni Cinquanta: ma quest’album con l’orchestra di Hal Mooney ci offre una vocalist composta, elegante, irresistibile.



Weather Report. I Sing The Body Electric (1972)

In questo secondo 33 giri del gruppo, sono già presenti diversi accenni a molte tendenze: rock, modale, folk, ethno, hard bop mescolati nella miglior potenza fusion della Storia.



Randy Weston. Tanjah (1973)

Pianista influenzato dalla cultura africana tanto nei lavori per solo piano quanto negli album con big band: ed in effetti questa orchestra sembra portare avanti la multiculturalità ellingtoniana.



Clarence Williams. Complete sessions (1923-25)

Importante come organizzatore in grado di valorizzare i nuovi giovani talenti dell’hot jazz nascente: in questi 78 giri fiuta il talento di Bechet, Armstrong, Redman, Bailey, Miley, ecc.



Cootie Williams. Duke Ellington’s trumpets (1937-40)

Varie sedute di small combos, i quali comprendono di fatto la crème dell’orchestra ellingtoniana: il leader trombettista però si lancia verso lo swing, ma non tradisce la lezione del Duca.



Joe Williams. Swingin’ night in Birdland (1962)

Metà bluesman metà crooner, è pertanto vocalist degno non solo di succedere a Rushing nell’orchestra di Basie, ma anche di incidere a nome proprio, dal vivo, con allegria in small combo.



Mary Lou Williams. Free spirits (1975)

Pioniera di Kansas City, tornata al jazz dopo una lunga fase colta, la pianista è a suo agio in trio con una ritmica hard bop (Buster Williams e Mickey Rocker) in una corposa miscellanea di standards e originals.



Phil Woods. Integrity (1984)

La formula del quintetto boppistico ancora vitalissima grazie all’istrionismo dell’altista bianco, che prosegue e aggiorna la lezione di Charlie Parker, senza forzarne i confini estetici.