Jazz Interviews

Foto: la copertina del libro










Jazz Interviews

Lia Passadori dialoga con Guido Michelone


È da poco uscito il nuovo libro di Guido Michelone dal titolo Jazz Interviews, in cui l’autore vercellese docente di Storia del Jazz al Conservatorio Vivaldi di Alessandria e di Civiltà Musicale Afroamericana presso l’Università Cattolica di Milano, raccoglie 82 interviste ad altrettanti esponenti del jazz contemporaneo, effettuate grosso modo tra il 2010 e il 2016: tra i jazzmen celebri di assoluto valore spiccano tre nomi, Paco de Lucia, Fred Katz, Bod Belden (quest’ultimo ritratto anche in copertina), ai quali il testo è dedicato, essendo mancati alcuni mesi dopo l’incontro telefonico o epistolare. Jazz Interviews è stampato e distribuito da Educatt, ente morale “no profit” dell’Università Cattolica: l’autore non ha ricevuto alcun compenso e i soldi ricavati dalle vendite del libro serviranno a un fondo per incrementare mense, ostelli, biblioteche, convitti universitari.



Jazz Convention: Il suo ultimo libro è una raccolta di interviste fatte a 82 musicisti: innanzitutto come mai la scelta dell’inglese? È una novità per lei pubblicare in un’altra lingua?


GM: No, non è una novità, questo è il terzo di tre volumi di interviste in lingua inglese dopo Speak Jazzmen e Jazz Is a Woman usciti quasi contemporaneamente nel 2010 e dopo El jazz habla español (2013) appunto in lingua spagnola, o meglio castigliano, oltre a qualche saggio, tra cui la voce Jazz per un’enciclopedia americana. Ho scelto l’inglese perché le interviste ovviamente erano tutte in inglese e quindi era già tutto pronto, ma soprattutto l’ho scelto per farmi conoscere a livello internazionale, visto che l’inglese è la lingua franca del jazz e ormai una koiné internazionale.



JC: Con quale criterio ha selezionato i musicisti?


GM: Sono almeno tre i criteri: l’amicizia personale, talvolta “indiretta” cioè limitata al solo facebook; il contatto con i loro ufficio stampa, facendoli parlare anche dei loro nuovi dischi; la mera curiosità o il puro interesse verso un jazzman che reputo valido, importante, originale.



JC: Alcuni sono universalmente riconosciuti come grandi esponenti del jazz contemporaneo, altri sono meno affermati oppure spaziano tra i generi: c’è un tentativo di allargare la concezione di “jazz²?


GM: Da un lato sì, nel senso che, come ai festival jazz, nel libro ci si avvicina anche al blues, al soul, al funk, persino al rock, perché in fondo la cultura afroamericana sonora è una sola, declinata in mille modi diversi. Dall’altro più realisticamente ho avuto la chance di parlare con musicisti per me validi, importanti, originali, come dicevo prima, ma che non rientrano nel jazz, ai quali ho comunque rivolto almeno una domanda sul jazz, anche per capire quali siano oggi i rapporti fra le tante diverse musiche. E poi cerco anche di mettermi dalla parte del lettore curioso che magari gradisce, su un’ottantina di interviste, ascoltare le voci di un bluesman o di un musicologo o di uno sperimentalista classico.



JC: Tra le domande più ricorrenti troviamo «come definiresti il jazz?». Ma è davvero necessario definire? E qual è la definizione dell’autore?


GM: Beh sì, lo studioso deve “definire” o almeno tentare di farlo anche in absentia, anche e soprattutto in maniera antidogmatica. E penso che persino da parte del jazzista sia giusto cercare di “definire” nel senso di ragionare attorno all’essenza del jazz. Ogni artista insomma deve porsi filosoficamente alcune domane “astratte” sulla propria arte, non solo di tecnica, di forma o di contenuto. Circa la mia definizione, alla fine del libro, anziché la tradizionale biografia, ho voluto auto-intervistarmi, utilizzando in parte lo schema di Salvatore Corso, così alla domanda «What is jazz?» io rispondo «The 20th Century Art». E credo fermamente che il jazz sia tra i maggiori contributi artistici, culturali, estetici, persino sociopolitici dell’intero Novecento, in grado altresì di cambiare il nostro modo di ascoltare e suonare, di vivere la musica insomma.



JC: Un’altra domanda ricorrente è «qual è stato il tuo primo contatto con il jazz?»: si tratta forse di un virus che, una volta contratto, influenza inevitabilmente il successivo percorso musicale di un artista?


GM: Per tutti quelli intervistati è stato così, altrimenti non sarebbero jazzisti e non avrei potuto conoscerli né tantomeno intervistarli. In effetti chi entra in contatto con il jazz, da giovane, da ragazzino (come è successo anche a me) in maniera seria, concentrata, profonda, appassionata, difficilmente lo abbandona. Ciò vale sia per l’ascoltatore sia per il musicista, il quale è rarissimo che diventi altra cosa, una volta iniziato a “fare jazz”…



JC: I musicisti intervistati li ha conosciuti tutti o si tratta principalmente di interviste via e-mail? Quanto è importante incontrare personalmente l’intervistato?


GM: Purtroppo molte sono via e-mail e quindi non ho ancora avuto il piacere di conoscere la persona dal vivo o di ascoltarla in concerto (per alcuni era accaduto molto tempo prima). Certo, l’intervista via e-mail permette un maggior controllo, perché il jazzman non può “sfuggire” a quelle domande, più o meno le stesse per tutti. Però il contatto vis-à-vis è impagabile, come in ogni rapporto umano; bisogna però che il musicista sia a proprio agio: con le interviste, per esperienza so che appena prima o dopo un concerto, è meglio lasciar perdere, quasi sempre…



JC: Cosa evince l’autore da queste interviste?


GM: Anzitutto emerge la personalità di ciascun protagonista, in base al rapporto che ha sia con il computer sia con l’intervista. Devo dire che chi ha accettato di “sottoporsi” alle mie domande lo ha sempre fatto ben volentieri, a parte qualche intervista filtrata dall’ufficio stampa della casa discografica, dove si capisce che il jazzman è sottoposto alla routine della promozione del nuovo album, ragion per cui vorrebbe parlare solo di quello e trasvola su altre questioni. Deduco inoltre che non ci sono mezze misure, ma una netta distinzione tra chi è telegrafico e chi invece si dilunga spesso appassionatamente nel fornire risposte complete e plausibili. Forse chi parla poco, ha anche poco da dire o preferisce farlo attraverso la musica, anche se nell’era della comunicazione, anche il jazzista, secondo me, deve essere impegnato nel riflettere sulla propria arte, come già dicevo.



JC: In che acque naviga il jazz contemporaneo? E come si prospetta il suo futuro?


GM: Acque tranquille o mosse, l’elemento positivo è che il jazz oggi naviga con perizia, sicurezza, attenzione. Forse è finita l’epoca dei grandi maestri e dopo gli ultraottantenni Lee Konitz e Sonny Rollins, tuttora molto attivi, e dopo gli esponenti del free (anche loro anzianotti) nessuno ha davvero fatto scuola, a eccezione forse di Keith Jarrett. Magari occorrerà lasciar passare molto tempo prima di capire se davvero esiste un Miles Davis o un John Coltrane del XXI secolo. In tal senso il futuro del jazz si presenta incerto, ma non negativo anche perché è una musica che si sta estendendo quantitativamente in tutto il mondo con risultati più che incoraggianti; potrei citare al proposito almeno metà dei musicisti intervistati quali portatori sani di nuove idee, ma non faccio nomi per non far torto a nessuno, anche perché ognuno degli 82 intervistati ha sempre qualcosa di bello o di buono da raccontarci, anche solo in una frasetta.



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