Il Jazz Italiano per le terre del Sisma

Foto: Fabio Ciminiera










Il Jazz Italiano per le terre del Sisma

L’Aquila – 3.9.2017

Le strade e le piazze de L’Aquila rappresentano un palcoscenico ideale per mettere a confronto il mondo del jazz italiano con il suo pubblico affezionato e – soprattutto – con gli ascoltatori meno abituali. Un centro storico ampio, ricco di piazze e cortili delle grandezze più svariate, spazi preziosi all’interno delle chiese: un palcoscenico naturale che offre ancora una volta la sua bellezza ai concerti. La varietà e la vitalità della scena jazzistica nazionale, da parte sua, si presta anche quest’anno per sollecitare una attenzione meno dolente sulla vicenda del capoluogo abruzzese, sulle difficoltà inevitabili di una ricostruzione che non poteva essere né facile né immediata. E, dall’altra parte, si propone al pubblico una quantità di musicisti – e la scena nel suo complesso e nella sua varietà – che merita un’attenzione superiore ai soliti numeri.


Questi i presupposti della terza edizione de Il Jazz Italiano per le terre del Sisma, la manifestazione voluta dal Ministro Franceschini con la direzione artistica di Paolo Fresu. Una denominazione mutata nel corso degli anni a causa degli eventi sismici che si sono susseguiti nell’Italia Centrale e hanno toccato anche alcune delle località dove si svolgono storicamente eventi jazzistici, come, ad esempio, il Premio Internazionale Massimo Urbani a Camerino. Un evento ormai stabilizzato, quindi, nel calendario degli appuntamenti nazionali. Se la prima edizione, nel 2015, si era svolta interamente a L’Aquila, lo scorso anno si era scelta una soluzione “diffusa”, a causa del terremoto di Amatrice, verificatosi qualche giorno prima della data prevista per l’evento. La terza edizione ha avuto, invece, uno svolgimento itinerante e ha toccato, in quattro giorni, le quattro regioni centrali colpite dai terremoti: si è partiti da Scheggino, in Umbria, il 31 agosto, e poi nei due giorni seguenti si è fatta tappa a Camerino e Amatrice, prima dell’appuntamento aquilano.


Le previsioni meteorologiche avverse hanno fatto in modo che la quantità di presenze fosse minore rispetto al 2015. La “consuetudine” dell’evento ha poi sicuramente reso meno tassativo il dover andare. I numeri restano comunque importanti. Sono stati circa settecento i musicisti che si sono prestati a suonare sui vari palchi e sono state stimate trentamila presenze nei quattro giorni della manifestazione. La giornata conclusiva ha visto, perciò, un pubblico significativo nelle piazze e nelle strade aquilane, in un centro storico solo parzialmente tornato alla normalità di una città che deve riprendere necessariamente a vivere, anche se non sarà un processo veloce o scontato.


L’idea di una giornata in cui il jazz italiano si incontra e si confronta, in maniera formale nei convegni e libera, a bordo palco, scambiando opinioni e idee contemporaneamente con persone che vengono dai quattro angoli della penisola, è senza dubbio positiva. E che questo avvenga sotto l’egida delle istituzioni è un valore aggiunto. L’Aquila ha tutti i requisiti per essere il miglior posto, sia per la posizione centrale che per la composizione del suo centro storico. Nonostante tutto, la città mantiene ancora il suo fascino: l’aspetto austero della pietra bianca, le facciate sobrie dei palazzi e delle chiese si stagliano forti a dispetto delle ferite, degli squarci e della rigida geometria delle puntellature. Una scenografia struggente per le esibizioni dei vari musicisti, per la ricerca dell’improvvisazione più efficace e delle note più emozionanti. Certo, la gestione di una simile quantità di musicisti e palchi presenta delle criticità, costituisce una macchina davvero complessa e, alle numerose difficoltà organizzative e logistiche di un simile evento, occorre aggiungere il fatto che si svolge in un territorio che non è nel pieno delle sue forze.


Nella mia opinione personale, ad esempio, il “concertone finale” cozza con la filosofia dell’incontro e della vicinanza che attraversa la giornata. È altrettanto facile intuire, però, come avere un momento di raccolta generale sia necessario nella logica del grande evento. E, ancora, si pone il problema di mantenere l’equilibrio tra il desiderio di rappresentare in maniera quanto più larga possibile la scena nella sua totalità e la quantità di eventi presenti nel pomeriggio aquilano: non deve essere facile, in ogni caso, fare delle scelte più mirate senza escludere voci ed espressioni dal cartellone. Ovviamente, poi, bisogna tenere conto della “ripetizione” dell’evento: superati il valore eccezionale, l’unicità e la sorpresa della prima volta, occorre fare i conti con il modo utile per richiamare e accogliere un pubblico vasto, molto più vasto degli standard abituali dei concerti e dei festival jazz. E, allo stesso tempo, trovare il modo utile per mantenere un’attenzione alta e sensibile sui problemi delle zone terremotate.


Il bilancio tra i vari fattori in gioco resta centrato: per quanto si possano avere obiezioni sulla formula complessiva, per quanto si possano avere perplessità su alcuni particolari, è difficile risolvere l’equazione in una maniera molto diversa. Dubbi e scetticismi sui singoli punti, anche i più leciti e legittimi, vengono depotenziati in modo sistematico nel momento in cui si provi a pensare concretamente a un modo alternativo di mettere in scena l’evento. E perciò resta la forza della giornata di festa, il valore positivo dell’incontro e il piacere di vedere i nostri musicisti esibirsi di fronte a platee molto più affollate del solito.


Ogni volta si torna da L’Aquila con una serie di emozioni in contrasto tra loro. I passi in avanti verso la ricostruzione si intrecciano con il dolore quasi fisico per le ferite inferte dal sisma alle persone e ai monumenti. La giornata dedicata al jazz rimane, sempre, una possibilità di rivedere la città ricca di gioia e animata da una vita normale.



Segui Fabio Ciminiera su Twitter: @fabiociminiera