Roma Jazz Festival: un Luglio da sogno

Foto: Luca Labrini










Roma Jazz Festival: un Luglio da sogno

Quasi a sorpresa, a Roma si fa fatica a ricordare un luglio come quello che si è appena concluso, così ricco di importanti ed interessanti appuntamenti jazz. Complice anche lo spostamento del Roma Jazz Festival dal più freddo novembre delle ultime edizioni nel suo mese originario, era inizialmente un evento dell’estate romana, quest’anno non c’è stato che l’imbarazzo della scelta, con molti eventi che si sono addirittura sovrapposti. Tra ritorni eccellenti e prime assolute, in un mese da sogno per ogni appassionato, si è potuto scegliere tra artisti di generazioni e stili diversi, dai grandi vecchi alle nuove stelle del firmamento mondiale, per un cartellone variegato che ha davvero accontentato e soddisfatto.


Tra i ritorni più attesi sicuramente quello del pianista e compositore americano Randy Weston. A capo dei suoi African Rhythms Quintet, questa vera leggenda del jazz ha dato vita ad un concerto unico, in una musica d’altri tempi che rimanda a quelli d’oro. Dentro il pianismo di Weston si può cogliere infatti tutta la sua vita e la sua esperienza, dagli insegnamenti di Monk al lunghi periodi vissuti in Africa, in uno stile ortodosso in cui il ritmo è l’elemento fondante. Arrivato all’età di 92 anni in una forma strepitosa, Weston ha condotto i suoi compagni di palco senza sosta per più di due ore facendo rivivere il jazz più genuino e puro, fatto di intrecci e influenze di varia natura, ma con al centro sempre le splendide armonie disegnate da un leader che ancor oggi dimostra ancora la sua invidiabile apertura mentale, in un lungo percorso che non sembra ancora per nulla terminato.


Pianista diverso in tutto, ma con la stessa propensione e apertura alla ricerca, è Vijay Iyer, qui alla guida del sestetto con il quale ha realizzato quel Far From Over indicato da molti come il disco dell’anno la scorsa annata. Una formazione davvero entusiasmante che, oltre alla ritmica fidata formata da Stephan Crump al contrabbasso e Tyshawn Sorey alla batteria, vede un line up di stelle con Graham Haynesa alla tromba e flicorno, Steve Lehman al sax alto e Mark Shim al sax tenore. I sei, ancor di più nella dimensione live, confermano quanto di interessante si era già potuto ascoltare su disco, con i lunghi brani che si dilatano che consentono, soprattutto ai tre solisti, di esprimere nuove idee e intraprendere nuove direzioni, in un mix di tradizione e avanguardia che affascina. Pochi i virtuosismi, con il leader un po’ sacrificato dalla formazione allargata, ma che rimane al servizio e coordina l’ensemble con grande piglio, per una musica d’insieme che colpisce per classe e bravura.


Sperimentazioni e fusioni che hanno sempre contraddistinto anche la carriera del sassofonista Steve Coleman, alla Casa del Jazz con i suoi Five Elements, un quintetto che senza strumenti armonici concede ancor più libertà d’azione ai vari componenti. Fondatore di quell’M-Base che negli anni ha recepito le influenze più lontane, accogliendo nei suoi progetti le istanze più disparate del funk, della musica africana fino ai ritmi più urbani e industriali, Coleman rimane fedele al suo credo presentando una prima parte contraddistinta dalle influenze africane e cubane, con la voce robusta del cantante Kokay a riecheggiare i canti della diaspora nera e trovando il controcanto nel sax tagliente di Coleman, finendo nella seconda in una evoluzione più moderna, dove echeggiano originali spunti hip hop, in un percorso evolutivo che delinea la grande continuità, fermezza e orgoglio di un musicista colto che è sempre andato avanti per la sua strada, senza mai scendere a compromessi.


Tra i grandi nomi presenti in cartellone spiccano quelli del trio di Chick Corea e del quartetto del chitarrista Pat Metheny. Il pianista americano ritorna al passato e rispolvera una formazione acustica nata nel lontano 1989, con il contrabbassista John Patitucci e il batterista Dave Weckl. I tre rileggono nuove e vecchie composizioni, quasi tutte a firma di Corea, in un concerto che si mantiene leggero ma elegante, in cui non mancano anche i grandi standard, per un classico trio in cui l’interplay e il divertimento sono l’elemento fondante. Un progetto che niente aggiunge a delle carriere già consolidate e importanti, ma che suona sempre in maniera impeccabile. Stessa linea seguita anche dal quartetto, ormai stabile, capitanato da Metheny, che sembra aver trovato in Gwilym Simcock, Linda Oh e Antonio Sanchez le sue spalle ideali. Questo quartetto è senza dubbio la dimensione ideale per ascoltare le composizioni di Metheny in una versione più intima e vera, dove, alle grandi doti tecniche, si ritorna a cogliere l’essenza delle sue composizioni e delle sue atmosfere autentiche. Alla buona riuscita va dato grande merito anche ai suoi eccelsi musicisti, protagonisti anche di splendidi duetti finali con il leader, che seguono e arricchiscono l’incredibile generosità di uno dei grandi della chitarra.


Grande pubblico lo richiama sempre la brillante voce di Dee Dee Bridgewater, quest’anno in tournée per presentare il suo progetto dedicato alla città e alla musica di Memphis, sua città natale. Accompagnata da una sostanziosa band, la cantante è tornata alle origini omaggiando gli artisti ascoltati alla radio con i quali è cresciuta, da Al Green a B.B. King fino alla Purple Rain finale di Prince, facendo rivivere una musica ormai datata, senza però tradire il suo talento di cantante e intrattenitrice. Un repertorio facile, ballabile, che trova nella voce della Bridgewater l’aspetto più significativo ma, pur rimanendo rispettoso delle composizioni originali, non riesce mai ad emozionare, suscitando più un sentimento di nostalgia che di vivo interesse.


Riscoprendo a quasi ottant’anni una nuova giovinezza, e un’attenzione mai così alta a livello popolare, il batterista Tony Allen è un altro nome altisonante del cartellone. Spostatosi oramai dal suo amato afrobeat e reinventatosi artefice dei più disparati progetti, arrivando a incidere nel 2017 per la prestigiosa Blue Note, il batterista nigeriano presenta proprio la sua nuova uscita discografica di stampo più prettamente jazz in una prima parte di concerto che fatica a trovare spunti di interesse. È difatti un jazz standard che non colpisce né nella scrittura, né nei singoli musicisti, non apparsi mai all’altezza della situazione. Di gran lunga superiore la seconda, con i ritmi che ritornano ad abbracciare quell’afrobeat che ha caratterizzato quel sound psichedelico degli anni ’70 e dove il drumming inimitabile di Allen riesce ad esaltarsi al meglio, senza trovare qui quel gruppo incredibile messo su da Fela Kuti, ma rifacendo almeno in parte tornare alla mente quelle sonorità che l’hanno reso uno dei batteristi più caratterizzanti e influenti.


Ad aprire l’edizione di quest’anno è a inizio luglio uno dei gruppi più seguiti dal pubblico più giovane, fatto soprattutto di musicisti. Per la loro prima volta assoluta a Roma, il collettivo degli Snarky Puppy desta parecchia curiosità con la cavea dell’Auditorium Parco della Musica che non ha faticato a riempirsi già in prevendita. Il gruppo appare però sin dalle prime battute più propenso ad ammiccare e alquanto povero di idee innovative, in un sound che manca di originalità e che non risalta alcuna individualità. Una formazione che lascia spiazzati per pochezza, dando l’impressione di essere uscita da qualche talent per una musica destinata a finire ben presto nel dimenticatoio, e che ha il solo merito di avvicinare i più giovani ad un certo tipo di jazz, nella speranza che in futuro possano passare a qualcosa di più compiuto.



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