Un po’ nordico, un po’ no…

Foto: Lorenza Cattadori










Un po’ nordico, un po’ no…


Parliamo di una musica speciale, e proprio nei minuti in cui inizia a circolare la bozza definitiva della nostra Fase 2. Quella in cui da gasteropodi nelle nostre conchiglie dovremmo trasformarci in gentil farfallette – ancorché dotate di autocertificazione. Mah. Mi piace pensare che “tutto vada bene” privilegiando il condizionale al congiuntivo esortativo, e visto che qui ci occupiamo di musica (e in particolare della musica più sfaccettata e poliforme che ci sia) è bello dedicarvi proprio ora qualcosa di singolare: mi renderebbe oltremodo felice se vi incuriosisse il colore – e il calore accogliente e inaspettato – delle esecuzioni di cui si andrà a narrare qui.


Dall’incertezza a un pensiero buffo: scrivendo una presentazione per la trentanovesima edizione dell’Open Papyrus Jazz Festival di Ivrea, edizione 2019 (di cui vi ha narrato benissimo il nostro Gianni Montano), non avevamo a disposizione moltissimi caratteri e come succede ogni anno gli eventi di cui parlare erano molteplici e pieni zeppi di rimandi letterari o artistici: in primis la dedica del festival alle “Memorie di Adriano”, inglobando nel concetto sia l’idea fondante della memoria nel testo di Marguerite Yourcenar (così profondamente attuale), sia l’espediente ideale nel ricordo di Adriano Olivetti, ancora così simbolico ed evocato.


Tutto bello, ma poco spazio per scrivere. Quando poi è arrivata la brochure completa e il nostro compito diventava quello di annunciare le formazioni, il banco è saltato.


Chi se ne importa dei caratteri, ci siamo detti, ma – soprattutto – quali caratteri.


L’idea era questa, per dire: E- Volution. Chitarra ed effetti, Luis Zöschg; percussioni e batteria, Christoph Zöschg; basso ed effetti, Norbert Dalsass; tromba ed effetti, Martin Ohrwalder…


E poi Wolfang Schmidtke Orchestra. Trombe, Ryan Carniaux, John-Dennis Renken, Rainer Winterschladen, Nikolaus Neuser; tromboni, Gerhard Gschlössl, Thobias Wember, Mike Rafalckyk; trombone basso, Peter Cazzanelli; sax contralto e soprano, Nicola Fazzini; sax tenore e soprano, Gerd Dudek; sax baritono, Helga Plankesteiner; pianoforte, Michael Lösch; contrabbasso, Igor Spallati; batteria, Bernd Oezsevim; sax soprano, clarinetto basso, arrangiamento e direzione, Wolfang Schmidtke…


Scatenata la tabella dei codici ASCII. Eppure, al di là dell’oggettiva difficoltà di scrittura, due concerti veramente travolgenti, e ognuno a modo proprio.


Nel pomeriggio di venerdì nell’eporediese chiesa sconsacrata di Santa Marta qualcuno brontolava per l’acustica, sebbene a noi questa pienezza sonora un po’ aulica piacesse davvero tanto. Terminata la bella presentazione del più recente lavoro dello studioso Franco Bergoglio, initolato “I giorni della musica e delle rose” (c’era anche il vino, in degustazione…), un musicista scalpitava al fondo della sala per l’emozione di concretizzare su un palco una musica non del tutto scritta e non completamente improvvisata, registrata ma mai eseguita.


Norbert Dalsass arriva da Bressanone con contrabbasso portando con sé il resto del trio, ma completandolo con la presenza della tromba davvero interessante (e un poco emozionata, ma piacevolmente) di Martin Ohrwalder, austriaco di Innsbruck con ottime frequentazioni musicali autoctone e una militanza nella Jazz Orchestra Tirol. L’occasione è il lavoro ‘Albatros’ (Caligola Records), di cui Dalsass ci spiega la metafora del saper riuscire a volare nonostante ali troppo grandi e inadatte.


La musica in effetti vola e scambia per meraviglie anche le piccole incertezze necessarie a una prima. Volano anche sorrisetti e sguardi tra i musicisti (davvero notevoli i fratelli Zöschg), tra cui immaginiamo ci sia anche una bella amicizia, perché per il pubblico che riesce a coglierlo è veramente una boccata d’ossigeno ascoltare una musica arcana che si riesca a percepire perfettamente, e che soprattutto sia scevra da broncetti vari e supponenza.


Davvero nulla del genere: qui tutto scorre fluido e intenso. L’incipit e il brano finale sono un chiasmo ideale per il racconto sonoro – che su disco si traduce realmente in momenti concettuali, (The New Beginning, Our aim’s nature, Accelerando, poco a poco…) – e la chitarra abitata da tutti gli effetti possibili riproduce l’apertura delle ali, o il volo, o un tema più preciso mentre la percussione ricama e gioca con il contrabbasso e dialoga con la tromba.


Gran bella performance, che su disco acquista anche la voce di Annika Borsetto, mai ridondante.


La vostra corrispondente dal Piemonte, di Monk ama proprio tutto. Anche i profili lontani guardando l’Hudson e sé stesso nel riflesso. Dopo anni di ascolti e letture e bio in varie lingue – e di fatto la sensazione di non saperne ancora un emerito tubo – è abbastanza comprensibile immaginare che recarsi a un concerto dove le strutture di Sphere potessero venire arrangiate e manipolate per big band, non è stata cosa semplice.


Non sapevamo molto di Wolfang Schmidtke, ma nel documentarsi prendeva forma una certa empatia per il rispetto che il Nostro dimostra nei confronti del grande musicista; c’era poi la garanzia di Helga Plankensteiner – vista al Teatro Giacosa di Ivrea nel 2018 con un suo progetto straordinario e molto eclettico sui Lieder di Schubert – e quella di Gerd Dudek, veterano dei fiati con un’impronta molto personale; anche Nicola Fazzini ha sempre dimostrato di saper scegliere i musicisti con cui collaborare, ma certo siamo entrati in teatro curiosi e apprensivi. Sbagliando davvero.


Il disco, “Monk!” (edito da Jazzwerkstatt), sancisce il lavoro di trascrizione e arrangiamento di Schmidtke dei brani del grande pianista di Rocky Mount. Sul palco, invece, il repertorio comprendeva anche qualche pezzo originale, composto dal sassofonista austriaco. Davvero non male. Quello che ci ha convinto è stata soprattutto la resa teatrale, diciamo, di tutta la performance. Ognuno degli orchestrali si alzava e arrivava perfettamente a tempo davanti al microfono principale per eseguire il proprio solo, scavalcando letteralmente gli altri musicisti e creando con questo una sorta di gag. Un divertissement che ci ha molto entusiasmato, e benché ci rendessimo conto che il materiale fosse quasi sacro e di fatto intaccarlo avrebbe potuto giustamente far storcere il naso a qualche cultore, tutto si è svolto con profonda leggerezza, gusto e sicuramente tanto impegno. Strepitosa come al solito la Plankensteiner al sax baritono: il direttore non dirige, nessuna conduction e invece una semplice collocazione tra i fiati in prima fila; Lösch al piano realizza la responsabilità che gli compete e l’esecuzione è piacevolissima, soprattutto nel brano Skippy. Ripetere l’ascolto su disco non ha deluso nessuno dei parametri.


Insomma loro: nomi complessi e dinamiche splendenti, passione e calore. Tecnica e ironia.


Nordici non troppo.



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