Bergamo Jazz 2024

Bergamo – 21-24 marzo 2024

Foto: Vincenzo Fugaldi

“In the moment of now” è il titolo che Joe Lovano, nuovo direttore artistico dello storico festival bergamasco, ha scelto per la quarantacinquesima edizione, che lo vede alla direzione dopo Maria Pia de Vito. Un programma interessante e variegato, frutto delle connessioni e delle idee dello stimatissimo sassofonista statunitense, decisamente orgoglioso delle proprie origini italiane, raccontate da Franco Maresco nel recente film “Lovano supreme”, proiettato prima del festival.

La tradizione e l’oggi, dunque, e un ponte fra le due sponde dell’oceano: il primo concerto, al Teatro S. Andrea, è stato affidato a un nome in tal senso simbolico, uno statunitense oggi ottantatreenne che ha attraversato la storia del jazz iniziando da una memorabile collaborazione con Archie Shepp (chi non avesse mai ascoltato il capolavoro “Blasé”, BYG Actuel del 1969, corra a procurarselo, possibilmente insieme ai due volumi Arista Freedom “Montreux One” e “Montreux Two”). Dave Burrell ha un suo modo peculiare di coniugare tradizione e free, in una sintesi che suona sempre nuova, sorretta da un forte senso melodico e da una viva prassi improvvisativa. Un flusso sonoro ininterrotto che ha spaziato fra notissimi standard come Come rain or come shine, My Funny Valentine, Over the rainbow, sempre con un senso personale della costruzione e decostruzione delle melodie, ma anche un suo bel tema crepuscolare eseguito per la prima volta, Just me and the moon, e il bis How little we know, costruito su un poema composto da Monika Larsson, inseparabile compagna di vita costantemente presente al suo fianco.

Il Teatro Sociale ha ospitato, nella medesima serata, due gruppi. Il trio di Danilo Pérez, John Patitucci e Adam Cruz e il quartetto di Fabrizio Bosso. Il trio del panamense Pérez ha pienamente convinto, con un set in crescendo, che andava da atmosfere tipicamente latin a omaggi più jazzistici a figure importanti come Angela Davis e Toni Morrison (Beloved), per toccare vertici davvero elevati durante l’esecuzione di due brani dedicati al mentore Wayne Shorter, uno composto da Patitucci (Wayne) e uno dallo stesso leader. Oltre che sulla conclamata perizia alle tastiere di Pérez, gli equilibri del trio si basano sulla storica intesa con Patitucci (che, soprattutto al basso elettrico, si conferma – se mai ce ne fosse bisogno – musicista maiuscolo) e con Cruz, batterista di eccezionale livello. Per bis, una versione di ‘Round Midnight personale e delicatissima, da antologia. Bosso, con i fedeli Julian Oliver Mazzariello, Jacopo Ferrazza e Nicola Angelucci, ha fornito una prova come sempre magistrale, mostrandosi misurato e concentrato, dando ampio e meritato spazio ai colleghi del quartetto.

Un incontro stimolante quello fra la nota artista Moor Mother e il percussionista Dudù Kouate, senegalese stabilitosi da tempo a Bergamo. Un incrocio suggestivo fra spoken word, parsimoniosi suoni elettronici e percussione fantasiosa e creativa, dove il verso declamato con voce forte e appassionata si fa musica, e racconta di sogni, aneliti, sofferenze, sentimenti, in una atmosfera scura, crepuscolare, di grande suggestione.

La seconda serata del festival, in un Teatro Donizetti stracolmo di pubblico affezionato, attento e plaudente, è iniziata con il progetto “Yankee Go Home” di John Scofield (con Vicente Archer al contrabbasso, Jon Cowherd al pianoforte e Josh Dion alla batteria). Groove, rock, Americana, blues feeling in una sintesi che univa Somewhere, la sandersiana The Creator has a Master Plan con ospite Lovano al soprano e il bis Mr. Tambourine Man, sempre con la inconfondibile chitarra del leader in primo piano, ma stavolta supportato da un gruppo non particolarmente memorabile. Il momento migliore della serata è stato il set del quartetto del sax alto Miguel Zenón (nella foto), portoricano, affiancato da un trio superlativo, composto dal pianista Luis Perdomo, Hans Glawischnig al contrabbasso e Dan Weiss alla batteria. Con una ricca discografia da leader e una vastissima da collaboratore, un suono e un fraseggio di grande impatto, il sassofonista ha offerto una prestazione maiuscola, con composizioni ampie e articolate, spesso staccate a velocità supersonica, fra latin jazz e jazz puro. Ma va elogiato anche il lavoro del trio, a cominciare dal fido Perdomo, pianista di eccelse qualità (insieme hanno inciso in duo i volumi de “El arte del bolero”, il secondo ha vinto recentemente il Grammy per il latin jazz), ma non si può non citare il fecondo contributo percussivo di Weiss, che ha fornito al quartetto la spinta giusta in ciascun istante del riuscito set.

Una splendida sala dell’Accademia Carrara ha ospitato il concerto del duo “Quest of the invisible”, composto da Naïssam Jalal al flauto traverso e al nay e da Claude Tchamitchian al contrabbasso. Parigina di origini siriane, nonostante l’impossibilità di utilizzare la voce a causa di una indisposizione alle corde vocali, la musicista e compositrice ha offerto una prova di grande suggestione, sia al flauto traverso sia al nay. Gran parte del merito della riuscita del set va anche al contrabbassista, anch’egli parigino ma di origine armena, che è da tempo uno dei nomi di punta del contrabbasso jazz in Francia, con una invidiabile padronanza tecnica dello strumento al pizzicato e con l’archetto, che ha fornito un supporto essenziale alle incantevoli volate solistiche della flautista, su composizioni delicatamente poetiche caratterizzate da vari influssi soprattutto etnici.

Elina Duni non ha bisogno di presentazioni per il pubblico italiano, avendo suonato più volte su e giù per la penisola. L’artista Ecm, albanese trapiantata in Svizzera e oggi stabilitasi in Inghilterra, era alla testa di un quartetto con il chitarrista Rob Luft e i macedoni Kiril Tufekcievski al contrabbasso e Viktor Filipovski alla batteria. Un combo entusiasmante, nel quale le eccellenti doti vocali ed espressive della cantante erano sorrette dalla perizia del chitarrista (anche suo partner di vita), uno dei nomi più interessanti fra i musicisti inglesi di oggi, presente tra l’altro sullo splendido ultimo disco di John Surman, che sia in accompagnamento sia in assolo non cessa di sorprendere, e dal contrabbassista e il batterista che hanno garantito un impulso notevole, specie nei brani basati su ritmi balcanici, irresistibili e trascinanti. Repertorio bello e vario, tra il canto salentino Bella ci dormi, brani tradizionali albanesi, jazz ballads intramontabili come I’ll be seeing you, e la hadeniana First Song, mirabilmente arrangiate e interpretate, Amara terra mia, per concludere sulle note danzanti della celebre Couleur Café di Gainsbourg.

Bobby Watson ha un rapporto privilegiato con l’Italia. È qui che la mitica etichetta Red Records di Sergio Veschi e Alberto Alberti, negli anni ’80 del secolo scorso pubblicò un paio di suoi dischi fondamentali. Oggi, a settant’anni compiuti, è venuto a suonare al Donizetti in quintetto, con i due fedeli veterani Curtis Lundy (contrabbasso) e Victor Jones (batteria), e due giovani di qualità come il pianista Jordan Williams e il trombettista Wallace Roney Jr (figlio di Wallace Roney e Geri Allen). Emoziona ancora ascoltare l’hardbop eseguito da chi chi ne è stato tra i protagonisti e inventori, a patto di non pretendere che la tecnica sia quella degli anni d’oro, almeno da parte del leader, che tuttavia dopo i primi brani ha mostrato segni della vecchia energia, pur senza le intro fulminanti cui eravamo abituati. Lundy e Jones, dal canto loro, hanno mostrato di essere ancora stimolanti, e delle prestazioni dei due giovani non si può che dir bene, con i loro solo sempre apprezzabili. Tra brani trascinanti e ballads (In a Sentimental Mood), un ritorno al passato fra luci e – poche -ombre. Luci e ombre che hanno caratterizzato anche l’attesa proposta di Famoudou Don Moye, con il suo omaggio all’AEoC nel cinquantesimo anniversario del concerto bergamasco. Un sestetto che schierava accanto a Moye la voce recitante di Moor Mother, il violino di Eddy Kwon, anche ottimo vocalist, il pianoforte e il trombone di Simon Sieger, il basso di Junius Paul e le percussioni di Dudù Kouate, in una serie di sketches musicali interessanti e non privi di fascino, date le doti eccezionali dei singoli musicisti, ma senza un quid che li collegasse, con evidenti cadute di tensione. Suggestivo l’inizio cantato in coro iniziando fuori scena, sino all’arrivo e al posizionamento della band sul palco, con l’invocazione dei nomi dei componenti dell’Art Ensemble non più tra noi. Poi il gruppo si sdoppiava in formazioni più piccole, dando spazio alle notevoli doti di ciascuno, eseguendo brani dei diversi componenti dello storico gruppo. Finale ovviamente sulle indimenticabili note di Odwalla, intonata dalla voce profonda di Junius Paul.

Fra le belle scelte del direttore artistico, una particolarmente memorabile è stata quella di chiamare a Bergamo il pianista palermitano Salvatore Bonafede. Classe 1962, un’ampia e validissima discografia a suo nome, una lunga formativa esperienza negli Stati Uniti, autore delle musiche di molti film di Franco Maresco, si è esibito in un pregevole e inedito duo con il tenore di Emanuele Cisi, che vanta un suono di grande bellezza. Nell’atmosfera raccolta del Teatro S. Andrea, dall’ottima acustica, il duo, coeso e paritario, ha reso magnificamente, fra squisiti equilibri, con una musica densa e concentrata. Composizioni originali del pianista (Blackwell, Conversation with Elvin) e del sassofonista, uno splendido trittico dedicato all’amor filiale che si chiudeva sulle note di My One and Only Love, con un assolo di struggente poesia di Bonafede, e un intervento graditissimo di Lovano, ospite al soprano, sulle note di On Green Dolphin Street.

Caso davvero unico nella storia del Top Jazz 2023 (prima fra i musicisti, come leader di un gruppo e come miglior disco) la contrabbassista Federica Michisanti è arrivata a Bergamo alla testa del suo French Quartet, con Louis Sclavis ai clarinetti, Salvatore Maiore al violoncello e Michele Rabbia alle percussioni. Ha presentato le musiche del suo premiato “Afternoons”, edito da Parco della Musica Records. Equilibri mirabili fra contrabbasso e violoncello, l’inconfondibile suono clarinettistico di Sclavis e la musicalissima fantasia percussiva di Rabbia, una formazione che valorizzava le composizioni della leader, colte e articolate, in un ottimo equilibrio fra scrittura e improvvisazione.

La conclusione del festival, nella prestigiosa cornice del Teatro Donizetti, è iniziata con il ritorno a Bergamo dopo 49 anni, di uno dei monumenti viventi del pianoforte jazz: Abdullah Ibrahim. Ottantanove anni compiuti, l’artista sudafricano è ancora capace di incantare, inanellando alcune fra le sue più belle composizioni dal delicato lirismo in due lunghe suite, concludendo il suo applauditissimo set con un canto a cappella dal testo commovente sul tema della nostalgia. E infine il Modern Standards Supergroup, con il tenore di Ernie Watts, il pianoforte e le tastiere di Niels Lan Doky, il basso elettrico di Felix Pastorius e la batteria di Harvey Mason. Lo storico sassofonista del Quartet West di Charlie Haden, oggi vicino agli ottant’anni, racconta ancora la sua storia con grinta e passione, contornandosi di partner davvero all’altezza, dai noti pianista e batterista (quest’ultimo era sul mitico “Headhunters”, capolavoro del 1973 di Herbie Hancock, dal quale hanno eseguito Chameleon) e dal già noto ma davvero sorprendente figlio d’arte Felix Pastorius, uno dei nuovi assi del basso elettrico. Un jazz ricco di groove, poggiante su una concezione felicemente mainstream e tuttora vitalissimo, per un concerto finale di grande qualità, conclusosi con un dovuto omaggio a Jaco Pastorius (Teen Town) che ha lasciato il folto pubblico che ha affollato i tanti concerti con il desiderio di tornare al festival, convinto dalle scelte artistiche ma anche dalla inappuntabile organizzazione.

Appuntamento dunque al 2025, quando il festival si svolgerà dal 20 al 23 marzo.

Segui Jazz Convention su Twitter: @jazzconvention