Narra fantasmi: la musica del Quartetto 19 tra haiku e ricerca contemporanea

Foto: la copertina del disco










Narra fantasmi: la musica del Quartetto 19 tra haiku e ricerca contemporanea

Una conversazione in chat con Nicola Cattaneo e Franco Cortellessa

Narra Fantasmi è il nuovo disco del Quartetto 19: un lavoro davvero molto particolare che si fonda sull’incontro tra musiche di provenienza diversa e l’incontro di questo risultato sonoro con le parole e il canto. Ci sono gli haiku di Marco Buttafuoco – e uno di questi haiku offre il titolo all’intero lavoro. Ci sono musicisti che provengono da contesti differenti e che stratificano i loro suoni in un tessuto sempre cangiante. C’è, soprattutto l’attitudine di cercare soluzioni non convenzionali. Abbiamo chiacchierato in chat con Nicola Cattaneo e Franco Cortellessa, animatori del progetto, per farci raccontare il percorso che ha dato vita al disco, le ispirazioni e le scelte artistiche.



Jazz Convention: Immagino che l’idea di lavorare con gli haiku nasca da lontano, visto che entrambi vi siete cimentati con la scrittura di testi per il disco…


Nicola Cattaneo: No, ho letto delle cose di Marco Buttafuoco, proprio su facebook, e le ho trovate talmente affini da volerle usare per scrivere della musica. In passato, ho suonato musica contemporanea scritta sugli haiku di Jack Kerouac: ma questa volta si è trattato di un incontro fortuito, una sorta di folgorazione.


Franco Cortellessa: Per me la necessità di scrivere un testo ha avuto più affinità con certa semplice poesia popolare. Gli haiku sono stati uno stimolo nuovo.


NC: In realtà, poi, i nostri testi non sono haiku. né formalmente né come intenzione: gli unici che rispettano la struttura sono quelli di Marco anche se c’è un’affinità nei testi brevi.



JC: Haiku-a-like, in pratica…


FC: Si.



JC: Nel rapporto tra musica e testo colpisce il fatto che mentre gli haiku sono sintetici e lasciano uno spazio di sospensione per il lettore, i brani sono molto lunghi ed esplorano in profondità i temi musicali e timbrici che avete portato dentro.


NC: Si, la scrittura del coro sui due haiku è madrigalistica, quasi fiamminga, ancora lontana e disinteressata della riforma palestriniana fatta in nome della Parola.


FC: Per Canto dal buio, invece, mi sono ispirato al canto corale di Premana, dove si canta il tir. Una grande potenza vocale su testi molto semplici.


NC: I testi non possono che attorcigliarsi su loro stessi. Dopodiché, l’improvvisazione dialoga con le parti scritte, andando a sniffare sotto i tappeti, seguendo i brandelli di luce lasciati dalla composizione. Più che un canovaccio, la scrittura di Narra fantasmi crea uno spazio in cui parlare. Sussura la presenza di un luogo in cui poter essere insieme improvvisando.



JC: Il significato dei testi diventa il riferimento per disegnare ed evocare le atmosfere dei brani, la musica diventa la maniera per definire i significati lasciati in sospeso dagli haiku.


NC: Si, anche se in alcuni casi, il testo è stato aggiunto alla musica in un secondo tempo. Questo è successo, ad esempio, con il testo di Calima: si tratta di una mia vecchia poesia che era funzionale all’atmosfera del brano. Le immagini degli haiku sono un motore generatore, ma solo come nucleo appunto fantasmatico, non c’è nessuna intenzione didascalica o descrittiva.



JC: E questo lascia al musicista molto spazio per interagire, così come il testo lascia al lettore lo spazio per trovare le sue risposte…


NC: Esattamente.



JC: Nelle note di copertina, dite che “la distopia è una fra le tante cifre di lettura di questa musica”…


NC: Il mio modo di comporre mi porta a suonare una sorta di musica popolare di luoghi non esistenti. Se si vuole, si collega all’idea di un non luogo, una sorta di nostalgia per un luogo che non esiste permea tutto il disco.



JC: Venendo agli aspetti musicali, avete costruito un quartetto di corde, dove sono protagonisti strumenti pizzicati e dai suoni medio-gravi, ai quali poi avete aggiunto le voci, il violino e l’oboe: come è nata questa formazione e a quali intenzioni risponde?.


NC: La formazione nasce dall’esigenza di ampliare il duo formato da me e Franco – con cui stiamo per pubblicare un cd…


FC: Già, il Quartetto 19 nasceva da questa esigenza…


NC: E poi anche dall’opportunità di suonare con delle persone fisiche. Secondo me, l’idea di dover pensare a un progetto musicale e, in un secondo momento, chiamare i musicisti adatti è sterile e gretta. Conoscevamo Alessandra Marchese e Giorgio Muresu e sapevamo che sarebbero stati sulla giusta lunghezza d’onda.


FC: Il quartetto era stato ascoltato solo in concerto e volevamo avere la registrazione di un suo lavoro.


NC: Nel repertorio era comunque ben presente una vena cameristica e quindi, istintivamente, non abbiamo parlato con sassofonisti o batteristi.



JC: Dal vostro punto di vista quindi è essenziale stabilire un rapporto umano e far scaturire la musica da quello.


NC: Certo, è la cosa più importante. Non servono anni per capire l’onestà di fondo di un essere umano con cui suono. Ad esempio con Ralph Towner ci siamo intesi dopo cinque minuti, con altri musicisti troppo interessati ad ammirarsi allo specchio mentre suonano sono passati via, senza lasciare troppa traccia.


FC: La possibilità di avere musicisti con i quali condividere una visione è stato fondamentale per lo sviluppo dell’opera. Con loro sapevamo di poterlo fare.



JC: Anche perché la vostra musica non offre ruoli canonici da rispettare ma prevede una partecipazione presente: senza interazione, si perde molto del significato.


NC: Certo, servono una partecipazione ed un’attenzione costanti.


FC: Senza interazione non c’è nulla e non ci sono ruoli subordinati.



JC: Nel passaggio dal duo di chitarre al quartetto e alla formazione più ampia con gli ospiti, come si è modificato l’interplay?.


NC: Beh, eravamo in undici: prima di suonare abbiamo dovuto strutturare le parti di improvvisazione, abbiamo dovuto stabilire in quale momento si sarebbe suonato in duo, trio, tutti e così via. Eravamo talmente attenti a non suonare troppo. E poi, per il resto, come sempre, si esce dal proprio corpo e ci si collega direttamente allo spazio transizionale che mette in comunione l’inconscio dei presenti.


FC: Così si pensa più al risultato complessivo più che alla propria prestazione.



JC: Come avete fatto progettato il disco?


NC: In realtà, non l’abbiamo progettato…


FC: Sembra buffo ma è così ….



JC: Immaginavo che questa sarebbe stata la prima risposta… strada facendo, però, come avete incanalato i vari elementi?


NC: Abbiamo pensato che volevamo fare un disco del quartetto, poi abbiamo pensato alle persone che conosciamo e con cui ci troviamo, al loro suono e a come sarebbe entrato nel quartetto. Io Da qualche tempo, volevo scrivere per delle voci e, nel frattempo, avevo letto le bellissime poesie di Marco.


FC: Con Emanuele avevamo già fatto due dischi, c’era un’intesa naturale e collaudata.


NC: Eravamo in contatto con Alessandra Lorusso da qualche tempo… e poi perché privarsi dell’oboe: Pietro Corna è uno dei migliori al mondo. E quindi, abbiamo iniziato a scrivere e a formalizzare. Poi, a un certo punto, volevo chiamare Alberto Mandarini alla tromba, ma eravamo già in undici.


FC: Io non avevo pensato inizialmente alle voci ma quando sono entrate in gioco… perché negarsi questa occasione! Quindi ho ripensato ai vari passaggi delle mie composizioni.


NC: Le ammucchiate sono un po’ la nostra passione… Basti pensare ad Apro il silenzio: abbiamo chiamato Mazzon e Mandarini, Stefano Giust, Emanuele Parrini, Giorgio Muresu, naturalmente. E poi è venuto claudio lodati a suonare un po’ e Guido ha portato con sé la cantante milanese, Pat Moonchy. Il mix alle volte, poi, diventa difficile, se non fosse per i miracoli del Dangerous Donkey Recording Studio..


FC: Pensavo proprio a quel disco: in quei giorni, con i musicisti che andavano e venivano, sembrava di far parte di una “Woodstock jazz”.



JC: Chi – o cosa – ha diretto il traffico? Vi siete lasciati guidare dallo spirito del momento oppure avete lasciato che le composizioni mantenessero il carattere che avevano in partenza? oppure ha fatto tutto il Dangerous Donkey?


NC: Beh, io ho diretto i miei brani ovviamente. Per preparare Narra Fantasmi ho lavorato per mesi con le voci, anche con il supporto di Cedric Costantino, mio amico e grande esperto di musica antica e direttore di coro. Eravamo tutti molto dentro nella musica, oltre ad avere una grande preparazione tecnica e spirituale, non c’è stato bisogno di rifare nulla. Apro il silenzio è stato più difficile. Per Narra fantasmi siamo riusciti a creare una comunione d’intenti da parte di tutti che è rara.


FC: Apro il silenzio era più magmatico: abbiamo pubblicato molto meno di quanto avessimo registrato. In Narra Fantasmi, invece, ho dato una direzione nei miei brani più che dirigerli veramente: sono comunque meno complessi rispetto a quelli di Nicola..


NC: E in Memomom, il brano conclusivo dedicato alla vicenda della madre di Franco, ho scritto la parte degli archi.


FC: Già: è un brano che ha avuto nel tempo molte diverse versioni ….


NC: Un pezzo intensissimo, io ho cercato di fare il meno possibile, seguendo l’armonia creata da Franco.



JC: Forse, dopo aver letto la presentazione, è il brano dove uno si sarebbe aspettato la presenza di un testo.


FC: Ci ho pensato molto in realtà, era un’idea che era venuta anche a Nicola. Poi mi sono reso conto che non ero in grado di maneggiare una materia così delicata in modo adeguato, ma continuo a pensarci ancora adesso, però. Il colore dato al tema dall’oboe di Pietro e l’interazione con gli archi hanno trasformato il brano con l’effetto di amplificarne l’impatto.



JC: Da quando ho preso in mano il disco, mi chiedo il perché del 19… Avevo pensato al conto delle corde ma ho sballato…


NC: Hai azzeccato alla prima, Fabio! Solo che qualcuno ha contato corde in meno…


FC: È andata esattamente così: ho fatto io il conto delle corde e, sbagliando il risultato, ho azzeccato il nome più giusto per il nostor progetto.


NC: Quartetto 21 suonava così male….


FC: Infatti Quartetto 19 è perfetto!.


NC: E racconta anche che della musica del Novecento teniamo il buono e tralasciamo gli zeri…



JC: In effetti la summa delle musiche del Novecento (e secoli precedenti) rappresenta bene il senso della vostra musica: uscite dai generi per usare però i vari linguaggi.


FC: Esatto.


NC: Certo, ognuno deve e può usare quello che conosce: se uno conosce solo lo swing sarà quello il suo mondo. Al riguardo vorrei dire una cosa molto importante: la nostra (o per lo meno mia) cifra stilistica è estremamente moderna. Non usiamo frammenti, non citiamo stili. Proponiamo una musica che è puramente quello che siamo, stando lontanissimi da quello che è il paradigma postmoderno. I riferimenti ci sono, è ovvio, ma sono rimasticati e risputati, rischiando in prima persona, nel solco di quello che è il vero spirito del jazz. Questa è musica nostra, fatta qui ed ora.



JC: Oggi come oggi, cercare di non essere post moderni è un impegno davvero significativo.


NC: Si, ma se si è onesti, se non si è pigri, se si studia, si è umili, si riesce a produrre un qualcosa di personale, fatto in casa, senza copiare da qui e da la, in funzione del “progetto”.


FC: Non abbiamo cercato di esserlo, siamo così: in modo meditato e non casuale ma necessario.


NC: Penso anche che ci possa stare un piccolo sforzo cosciente verso un’autonomia artistica, in fin dei conti abbiamo anche uno spirito razionale da qualche parte… E poi conta anche l’onestà con cui ci si guarda dentro e si guarda alla funzione della musica nella nostra vita e se vogliamo fare musica o stare su un palco, quello che ci piace veramente.


FC: Ed è cosa che ripaga ma è anche uno sforzo che si paga.



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